Don Bruno Bertolazzi nel corso dell’incontro con papa Giovanni Paolo II
9 minuti per la letturaPOTENZA – Quando entra per la prima volta a Potenza, Bruno ha 23 anni compiuti da poco. Fra le mani stringe il manubrio di una potente Guzzi Alce. Indossa la divisa del Primo Raggruppamento Motorizzato e guida l’autocolonna che dovrà raggiungere Caserta. La fila di camion e blindati attraversa la via Appia fra due ali di folla plaudente. Molti sventolano il tricolore, qualcuno piange, qualcuno lancia fiori.
«Era poetico», commenta oggi don Bruno Bertolazzi, 100 anni compiuti il 15 settembre scorso, in una sala dell’oratorio di Don Bosco, nella piazza omonima a Potenza.
Sono più di vent’anni che vive nel capoluogo lucano. Era la fine di novembre del ’43 quando, militare nel Primo Raggruppamento Motorizzato che diventerà il Corpo di Liberazione Italiano, fece il suo primo ingresso a Potenza. Difficilmente avrebbe potuto immaginare che ci sarebbe tornato in pianta stabile, ancora più difficilmente in quali vesti.
La vita di don Bruno – sacerdote che a quasi 101 anni ancora concelebra messa («A celebrare non me la sento, ho qualche problema di udito e di vista») – è uno scrigno di esperienze custodito nel cuore salesiano della città.
Nato a Carpi nel Modenese da «un industriale della seta e una maestra, come si usava allora nelle buone famiglie, figlia di un colonnello dell’Esercito di Bergamo», si trasferisce ben presto a Treviso, quella che considera ancora la sua città.
Due fratelli più grandi, liceo classico sempre con buoni risultati. Giurisprudenza a Padova. Ma intanto è arrivata la guerra e il servizio militare. Contemporaneamente, l’impegno, spontaneo e appassionato, nella Fuci, la Federazione universitari cattolici italiani e la Giac, Gioventù di azione cattolica. Per un periodo è presidente diocesano della Giac e reggente della Fuci («Per carenza di giovani», si schermisce).
Quando manca un esame alla laurea, il corso da allievi ufficiali a Napoli. Laurea con il grado di sergente. A Pescara diventa tenente. A Trani lo raggiunge l’armistizio.
E’ don Bruno a ricordare: «Il comando disse: gettate la divisa e andate a casa. Mi sono fatto prestare un abito borghese da una famiglia di amici. Dopo due giorni di cammino – io ero autiere, non fante, e il cammino mi pesava – mi sono fermato e aggregato a una compagnia del Genio a Ortanova».
Bruno partecipa alla battaglia di Montelungo, nella prima settimana di dicembre del ’43, la prima in cui soldati italiani – mal equipaggiati e peggio armati – combattono al fianco delle forze angloamericane contro l’ex alleato nazista, costringendolo a ripiegare.
Bertolazzi non è in prima linea ma fa l’autiere, cioè guida mezzi militari. «Un giorno portavo il camion delle munizioni – narra – preceduto a distanza dal mio caporale con quello dei viveri. Arrivato a destinazione mi hanno detto che era stato colpito da un colpo di obice tedesco. Lui era morto. Si chiamava Buttazzo, non l’ho più scordato. Davvero un bravo ragazzo. Io ero ancora vivo».
Non si dà arie da eroe, tutt’altro: « Una volta andavo da Colli a Volturno a Scapoli, se non sbaglio. Ero solo a guidare questo camion. A un certo momento scoppia una gomma. Mi fermo, scendo, inforco gli occhiali, alzo gli occhi e leggo un cartello: “Be aware”, state attenti, siete sotto il tiro di mortai tedeschi. Me la sono squagliata a piedi».
Una ridda di trasferimenti, Solopaca, Melizzano, zona di Colli a Volturno. Poi Napoli e Torre Annunziata a far da aiutante a un maggiore che lo prende a ben volere come fosse un figlio, mentre le uniche comunicazioni con la sua famiglia (la mamma a Treviso, un fratello prigioniero di guerra) avvengono tramite le cartoline della Posta Militare.
A Torre Annunziata arriva la tranquillità. E qualcos’altro: i Salesiani. Ecco come va: «Un giorno la Fuci andò a giocare una partita di pallone nell’oratorio dei Salesiani. Non ero andato per giocare, perché io il pallone non l’ho mai praticato, ma per stare in compagnia. Mi piacque l’ambiente. La partita non si fece, perché venne a piovere, e il gruppo dei salesiani si rifugiò in chiesa. Era il mese di Maria Ausiliatrice. Mi piacquero i canti. Ci sono ritornato il giorno dopo, e l’altro ancora. Ho chiacchierato con tanti giovani salesiani e mi son detto: potrebbe anche essere la mia vita. Lì è scoppiato l’amore».
E dire che un lavoro, tranquillo, ce l’ha già: impiegato all’Ufficio Registro di Treviso. Ha anche fatto il concorso per entrare di ruolo. «Ma Don Bosco ha avuto ragione. E questa è la mia vita. Salesiano», commenta con la consueta concisione don Bruno.
«Intanto la guerra finiva, mi apprestavo a tornare a Treviso e lì – interessante da vedere – eravamo proprio due nazioni diverse: il nord e il sud».
Unico vero ostacolo, la mamma rimasta sola e desiderosa che almeno quel figlio – il maggiore si è già sposato, l’altro èra prigioniero – le resti accanto. Ma una volta convinta, il noviziato, tre anni a Caserta come assistente dei giovani, poi Teologia e tutta la trafila.
La mamma, accantonato definitivamente il sogno che il suo Bruno faccia carriera nella pubblica amministrazione – si rasserena sempre di più e, il 20 dicembre 1952, Bruno è ordinato sacerdote a Soverato. «E mia mamma venne e fece la pace con i Salesiani – ricorda oggi con un sorriso dolce – Fu accolta molto bene, ospitata nell’istituto. Il direttore le faceva dare la buonanotte ai ragazzi del liceo. Insomma, si creò famiglia».
Questa espressione («Creare famiglia») accompagna spesso il racconto di don Bruno. E’ lo specifico dei salesiani, un obiettivo e insieme un modo d’intendere la propria vita cristiana: una grande famiglia che insieme prega, gioca, ragiona, vive.
Dopo lo studio della Teologia, il fresco pretino si iscrive di nuovo all’Università per la laurea in Filosofia. «Io dovevo insegnare: la laurea in Giurisprudenza mi fu accettata per i primi due anni a Caserta dal provveditore anche per insegnare Lettere, poi non più. E così mi laureai anche in Filosofia», spiega – pragmatico – il sacerdote.
E ricomincia la serie di trasferimenti per i diversi uffici che è chiamato a svolgere nella famiglia salesiana: due anni a Soverato, cinque a Taranto, due a Brindisi, tre a Bari, due a Corigliano d’Otranto.
Non finisce certo qui, cent’anni sono tanti se li si passa sempre e costantemente in servizio: c’è ancora il ruolo ispettoriale per ben quindici anni a Bari e per sei anni e nove a Napoli. Poi diventa direttore di Castellammare, dopo di Lecce e ancora un ritorno a Napoli con i ragazzi bisognosi d’assistenza. Fra tutti questi impegni, c’è l’esperienza forse più formativa per la mentalità di don Bruno: per sei anni è direttore della Casa generalizia di Roma: «C’erano 92 confratelli di 20 nazionalità diverse», sottolinea lui.
Ma, in quella sede, c’è anche il “Rettor maggiore della Congregazione salesiana”, ossia il successore di don Bosco. All’epoca è Egidio Viganò, settimo in ordine di tempo, che concluderà il mandato nel 1995. «C’è una foto in cui sono seduto al suo posto», rammenta don Bruno, ridendo tra sé. Ne ricorda anche commosso le ultime ore, mentre gli tiene la mano e riceve un sorriso.
Bruno Bertolazzi si ritrova attivissimo ottantenne. Ben oltre la soglia che, nella vita civile, è considerata il limite del lavoro, quando finalmente si tirano i remi in barca e si godono i frutti di una vita attiva.
Ma non per lui: è inviato a Potenza. Nel capoluogo lucano l’incarico è di assistente degli universitari.
«Ma, guardandomi in faccia con questi ragazzi, ho detto: cosa devo fare? Stare attento che non facciate chiasso? E allora abbiamo deciso insieme con l’Azione cattolica e la Fuci di fondare un’associazione universitaria. La chiamammo Ucal, Universitari cattolici dell’ateneo lucano. E ancora va avanti».
L’incarico potentino è il più lungo della sua vita. «Già», riflette. «Ora però penso di non avere altri trasferimenti», ride ancora.
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