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Filippo Nigro nelle vesti di cantautore

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Nigro è la “figura tipo” che emerge dalla ricerca del Cnr “Docenti con la valigia”, secondo cui sono soprattutto gli insegnanti non di ruolo lucani a partire verso il Settentrione, e soprattutto le scuole della Toscana ad accoglierli

POTENZA – Fortunati i suoi alunni. Filippo Nigro, insegnante potentino da anni impegnato nelle scuole toscane, è una persona speciale.
Uomo dalla vasta cultura – sia classica che legata all’attualità – e dalla memoria quasi prodigiosa. Negli anni giovanili al forte impegno sociale si associò l’attività musicale. Cantautore appassionato, firmò alcune canzoni che in città – e anche fuori – presero piede. Nome noto nei circuiti locali, diventò un vero e proprio piccolo culto – la parola non sembri esagerata: è la realtà – per uno zoccolo duro di fan che lo seguivano nei concerti. Era anche la voce – un timbro incredibilmente simile per colore e profondità a quello di Fabrizio De Andreè – a renderne memorabili i recital. Una canzone in particolare, “Maledetta città”, veniva sempre richiesta nei bis: non canto d’odio per la sua amata Potenza ma anzi atto d’accusa contro chi ne avvelenava l’esistenza.
Oggi la chitarra è – temporaneamente – appesa al proverbiale chiodo. E Filippo Nigro è un insegnante lucano che lavora in Toscana. Incarnazione della “figura tipo” che emerge dalla ricerca del Cnr “Docenti con la valigia”, secondo cui sono soprattutto gli insegnanti non di ruolo della Basilicata a partire verso il Settentrione, e soprattutto le scuole della Toscana ad accoglierli.
Professor Nigro, dove si trova adesso? Cosa insegna?
«Attualmente opero in Mugello, tra Dicomano e San Godenzo. Quest’ ultimo, paese collinare quasi isolato, dove il tempo sembra essersi fermato, perduto tra fiumi, valli e paesaggi naturali incantati e incantevoli. Insegno lingue straniere e svolgo funzioni di sostegno».
Ci racconta i suoi spostamenti degli anni scorsi?
«In questi anni, una vita più simile a quella di un camionista che a quella di un insegnante: per recarmi in paesi fuori mano e per trovarsi in tempo con gli orari di servizio, talvolta si sono fatti viaggi della durata di 12 ore. Inizialmente, tale era l’entusiasmo che la stanchezza neanche si sentiva; con il tempo si prende “coscienza” di questi strapazzi, ma si tratta soltanto di un effetto collaterale».
Perché ha scelto proprio la Toscana?
«La scelta è stata dettata da motivi utilitaristici, ossia per la maggiore possibilità di incarico per le classi di concorso delle quali possiedo o titoli. Poi, ci si sente talmente a casa che sembra che non sia stato io a scegliere la Toscana, bensì la Toscana (il Mugello, in particolare) a scegliere me».
La Toscana l’ha accolta bene, insomma.
«Si avverte la distanza dalle proprie “radici”, ma è come se ti tenesse compagnia in attesa di farvi ritorno. Il Mugello, in particolare, per paesaggi naturali e struttura di alcuni paesini immersi nel verde, mi ricorda la Basilicata. Oppure sono io che mi ci sento a casa mia».
Le capita d’incontrare altri insegnanti che vengono da altre regioni come lei? Parlate mai della “saudade” dell’emigrante?
«Il legame è sempre forte con la mia terra d’origine. Anche tanti altri colleghi, provenienti dal Sud, provano lo stesso sentimento. Vivono in Toscana da molti anni e ci si trova concordi sul fatto che più passa il tempo e più pesa allontanarsi ogni volta che si riparte dalla propria terra d’origine. Ma è una sensazione che passa una volta rientrati al lavoro».
Com’è insegnare nell’epoca dei social network?
«Il network è fonte di grande informazione che può essere didatticamente utile se usato sapientemente. Ad ogni modo, le uniche fonti di riferimento qualificate e autorevoli restano i libri e i giornali».
Pensa che insegnare sia una missione o cos’altro?
«Un lavoro che amo fare: un dono a me stesso e al mondo».
Ci racconta qualche storia che l’ha particolarmente colpita in questi anni di lavoro?
«La migliore esperienza l’ho avuta in “città di frontiera”: nella stessa classe convivono italiani, africani, magrebini, sudamericani e cinesi. È stato rincuorante constatare che i ragazzi vedono soltanto ragazzi e non “stranieri” e questo è motivo di speranza per un immediato futuro».

 

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