Paolo Albano e Sergio Ragone durante la passeggiata nel centro storico di Potenza (foto Andrea Mattiacci)
9 minuti per la letturaPOTENZA – Due camminatori. E narratori. Uno sembra sorreggere il peso dei libri letti – e delle persone conosciute, delle memorie – su un bastone che ad ogni passo lo collega al mondo attraverso il contatto con le pietre di Potenza, come se tratteggiasse il passo lento con un segno immaginario e intermittente. L’altro si collega al mondo con lo smartphone, racchiude il presente-passato-futuro in una chiavetta Usb («memoria più innovazione») e usa gli hashtag come «metrica» universale. Una passeggiata in centro con Paolo Albano e Sergio Ragone, il rabdomante con la pipa e il narratore 2.0, è un confronto generazionale sull’idea di città. L’approccio bipolare si addice al capoluogo di una regione con due nomi, e l’itinerario non può che unire due luoghi anch’essi dalla doppia denominazione: piazza Prefettura ovvero Mario Pagano e piazza del Sedile ovvero Matteotti. «Veramente piazza Prefettura si chiama anche piazza Polmonite» ride Ragone mentre il vento, in effetti, fa dimenticare che manca un mese all’estate. Albano intanto ha già richiamato l’attenzione su uno degli interventi architettonico-monumentali più invasivi e discussi della città: l’installazione di Gae Aulenti nella piazza dei Tre Nomi (che a questo punto diventa la quarta definizione…). «Questa piazza è bruttissima. È ridotta a un campo di pallone. Era il cuore del centro storico, il posto dove si creavano i capannelli, nel tempo in cui uscivi senza darti appuntamento con gli amici sapendo che tanto li avresti incontrati su via Pretoria. Dove ora vedi il negozio Marina Rinaldi c’era il bar Pergola, pensa che era così bello fermarsi qui a parlare che qualcuno usciva dal bar con la tazzina di caffè e, incontrando gli amici, finiva al Gran Caffè e qui posava sul banco la tazzina vuota. Una città che cancella la propria memoria è una città senza passato ma soprattutto senza futuro». Iniziamo bene.
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Ragone nel frattempo ha visto rimbalzare il suo hashtag #euapiedi in Messico, pochi giorni fa era stato digitato a New York: continua così ben fuori dai confini della Basilicata la sua narrazione su Potenza in 100 giorni. «Dopo il caso Claps e gli scandali di Rimborsopoli, questa città finalmente è tornata a occupare l’homepage dei più importanti siti d’Italia», e il suo progetto in effetti ha incuriosito più di una testata, Corriere della Sera in primis. Sì, ma che dici della piazza dai Quattro Nomi, che poi è come dire senza nome? «Se guardi bene è una piazza centralissima ma fuori asse rispetto al corso principale, e già questo spiega tutto. È una metafora di Potenza, come la salita. Rispetto a quello che dice Paolo sono d’accordo fino a un certo punto: è vero, Potenza è una città che sembra non avere tracce della propria storia, penso al Covo degli arditi che potrebbe raccontare la nostra Resistenza e invece l’antifascismo sembra aver subìto un processo di rimozione, penso all’angolino in cui è relegato il monumento a Giuseppe Zanardelli: il suo discorso è un esempio di lungimiranza e suona ancora oggi attualissimo». Torniamo alla piazza. «È un luogo che non racconta, sì, ma da cui si può raccontare la città. Sarebbe bello unire in un unico racconto collettivo la mamma col passeggino, i bimbi che giocano a calcio e gli anziani seduti sulle panchine. Invece ognuno se ne sta per i fatti suoi. Potenza non è la città dell’apparenza ma la città dell’indifferenza, guarda il caso Claps. Mi piace citare un detto ebraico: cosa c’è di più vero della verità? La storia». Potenza snobba la propria storia? In effetti l’epigrafe latina su via Pretoria lato Portasalza, segno dei fasti del passato, potrebbe essere valorizzata almeno come quella posta sulla casa di Emilio Colombo. E a San Rocco c’è un crocifisso del Quattrocento che non tutti i potentini conoscono, e forse non solo per loro colpa quanto piuttosto di chi non l’ha saputo comunicare loro al meglio.
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L’altro giorno salendo in ascensore una giovane mamma con passeggino chiedeva informazioni su dove fosse la Trinità, e non certo per questioni religiose. È un fatto che la prima tappa di un ipotetico tour a Potenza parte proprio da lì, il fattaccio di cronaca ha creato una meta turistica come in una Avetrana solo un po’ meno famosa. Albano: «Una volta che è stata chiusa la chiesa, il centro storico è morto». La riapertura di una edicola storica proprio nello slargo antistante è un segnale in un certo senso di rinascita, un po’ come il muro creato dai pannelli gialli del cantiere attorno alla chiesa divenuto un museo all’aperto ciclicamente riempito di foglietti con citazioni, opere d’arte, decollage, adesivi e stencil: una bacheca facebook in versione reale. Anche quella è una auto-narrazione della città. Albano fa un balzo indietro di oltre mezzo secolo. «Ricordo la messa di mezzogiorno della domenica: per i potentini era anche un rito pagano, le coppie si vestivano con l’abito buono. Dagli anni cinquanta monsignor Vincenzo d’Elia ha animato un gruppo di intellettuali da Colombo a Verrastro a Santomassimo, c’erano i comunisti e i democristiani assieme in un esperimento di cultura cattolica di sinistra che fu il giornale L’Onda: facevamo le riunioni in chiesa, ma la Curia né altri hanno mai messo bocca su quello che scrivevamo. Ecco, oggi manca la borghesia illuminata». Quello dell’Onda fu un laboratorio simile a quello che, anni dopo, ai tempi del primo regionalismo, collocò la Basilicata all’avanguardia, così come ai tempi di Di Nardo si sperimentò una prima idea di Progressisti poi Ulivo, erano gli anni in cui Gianni Pittella muoveva i primi passi. Ma il discorso si sta facendo troppo politico. Passo indietro di Ragone: «Per la mia generazione, il caso Claps è stato qualcosa di enorme, e la Trinità è un luogo a suo modo identitario. Da allora abbiamo provato, in una città tranquilla come la nostra, un senso di sgomento e paura degli altri. Da allora nessun dibattito pubblico è stato condotto con serenità». Forse neppure quello politico.
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Siamo davanti al civico 164 di via Pretoria, è sempre lo slargo su cui affacciano la Trinità da un lato e la nuova-vecchia edicola dall’altro. La pietra angolare del portone riporta la cifra A.D.1845, questa era la redazione locale del Mattino ai tempi in cui le pagine lucane uscivano di colore rosa. Poco sotto, piazza Duca della Verdura assolata sembra lo scorcio di un borgo umbro o toscano ma che tristezza tutte quelle serrande abbassate. La mortalità dei negozi è un altro stigma della Potenza del dissesto, ma anche in questo caso c’è subito un contraltare (sembra un meccanismo che la città genera in automatico per smentirti): l’insegna di Petilli, dieci metri più in là, che rivendica con orgoglio il suo esserci da oltre ottant’anni (1933). In questo depauperamento, Albano individua le colpe dell’ex sindaco Santarsiero, in particolare con la decisione di trasferire in via del Gallitello il fulcro del commercio. Tra i negozi che non ci sono più, lo sciamano con la pipa ricorda la libreria di Vito Riviello: «Lì comprai “La corriera stravagante” di Steinbeck. Ricordo quando entrai nella Trinità e lessi quel titolo tra i libri all’indice…». Riviello è per Albano, ma anche per Ragone, figura imprescindibile, come quell’Aldo Lacapra che rifiutò il posto “ereditato” in Generali per dedicarsi alla sociologia e alla fotografia, «è lui che mi regalò la prima pipa…». Altre storie di mezzo secolo fa.
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Cita un libro di Andrea Bettini (“Non siamo mica la Coca-Cola, ma abbiamo una bella storia da raccontare ”, appena uscito per i tipi di Franco Angeli), invece, Sergio. Che è nato a Tricarico l’anno dopo il terremoto, l’evento che senza dubbio ha segnato una cesura nella percezione collettiva. Di Riviello – citato da Papaleo sul palco di Sanremo – ama la definizione di “Potenza città tra paesi”, ma nel pantheon di Ragone un posto ce l’ha anche Sinisgalli, creatore del logo Eni, teorico dell’anima nella meccanica. È un millennial atipico perché ha frequentato le sezioni giovanili dell’attuale Pd, sponda ex Ds e con Roberto Speranza («guarda, quel signore è il papà») come riferimento; nel 2006 era in Spagna al camping mondiale dei giovani socialisti e sa che nell’era post-ideologica la politica, e il centrosinistra in particolare, non può sottrarsi dal vedere in Renzi un acceleratore di processi. Mastica la politica e può dunque incalzare Albano senza che la provocazione suoni qualunquista: «Paolo, cosa ha fatto la vostra generazione per preservare la bellezza della città? Sì, le responsabilità della politica e di chi amministra sono innegabili, ma la mia generazione non conosce molte cose perché non le sono mai state raccontate». A proposito, che idea ha un trentaquattrenne della bellezza applicata a Potenza e alla Basilicata? «Credo che sia un valore economico prima che estetico. Penso a Matera2019 e vedo in Potenza un treno che va in quella direzione». Non è il caso di fare battute su binari e stazioni ancora inesistenti. Ragone si spiega meglio: «Matera è un set cinematografico? Bene, allora perché non fare di Potenza un polo di formazione per le maestranze? Sì, per dirla coi Negrita “qui non è Hollywood” però… Il cinema è la nuova economia reale della Basilicata, come l’innovazione, penso a Geocart che il mese prossimo festeggerà i vent’anni di attività. Mi è molto piaciuta la provocazione giornalistica del Quotidiano di definire Potenza la “Controcapitale”». Ma un’altra provocazione, quella generazionale lanciata qualche minuto prima, è rimasta inevasa e senza risposta. Figurarsi se Albano si sottrae.
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«La mia generazione non ha osteggiato le seconde file della politica mentre alimentavano le loro clientele, ma le colpe sono anche della classe dirigente dell’ex Pci – tuona Albano –. E molti dei giovani di oggi sono impresentabili». Siamo intanto arrivati davanti a casa di Colombo, nel punto in cui via Pretoria fa angolo con via Sacerdoti Liberali, il vicolo dove la gente faceva la fila per essere ricevuta dal politico nelle sue pause potentine, prima della damnatio memoriae degli ultimi tempi. A sorpresa, la figura di Emilio Colombo è l’elemento che salda due generazioni all’apparenza così distanti. Ragone racconta di quando il padre glielo presentò: la location è sempre questo fazzoletto di via Pretoria – è molto suggestiva questa geolocalizzazione sentimentale che ogni potentino potrebbe snocciolare del proprio privato che si fa pubblico. «Avevo 9 anni quando gli ho stretto la mano. A 26 venne lui a stringermela, dopo il mio discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico. È stata un’emozione forte». Albano ricorda invece, con amarezza, le cento persone che accolsero il feretro di Colombo in una città che, a suo dire, non tributò gli onori dovuti al celebre figlio. E cita una sua frase dopo un giro nella Potenza moderna: «Non c’è anima!», urlò. Ora bisogna capire se prima o poi l’anima tornerà a soffiare nelle viscere di Potenza con la stessa forza del vento che agita i suoi vicoli.
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