Selfie di Antonio Petrocelli davanti al Teatro Stabile
8 minuti per la letturaPOTENZA – «Questa improbabile New York ha un grande futuro cinematografico»: Antonio Petrocelli – nella hall del Grande Albergo di Potenza dove risiede mentre è impegnato nelle riprese di “La notte più lunga dell’anno” – tira giù la mascherina per sottolineare quanto creda in questa sua affermazione.
La tirerà giù anche altre volte, ad esempio per dimostrare una tesi molto originale, ossia – lui, lucano nato 67 anni fa a Montalbano Jonico – che non esiste la “lucanità”, il carattere distintivo dei lucani su ogni altro comunità regionale italiana. Tesi che peraltro portava avanti uno tra i maggiori storici della Basilicata, Tommaso Pedio, quando diceva apertis verbis: «Non capisco perché si voglia dare un’identità alla nostra regione».
Ecco, per sottolineare questa tesi Petrocelli dà una lettura alternativa della poesia “Lucani nel mondo” di Leonardo Sinisgalli. A sentirgliela declamare con due intenzioni diverse – prima profonda e compresa nello stilema del “lucano tipico” e poi sardonica nello smontarne i luoghi comuni – non si può non considerare con attenzione questa ipotesi. Non si può nemmeno non apprezzare la bravura di un attore che, sulla poltroncina in pelle di un hotel, si sdoppia. E fa ridere, molto.
La «improbabile New York» è Potenza, così definita per via dell’impatto visivo che esibisce a chi arrivi dalla Basentana, una sorta di Manhattan in sedicesimo che poi svela al visitatore un intrico di strade e cemento spesso disordinato.
Petrocelli è autore di romanzi, poesie (l’ultima silloge è stata recensita con entusiasmo da Raffaele Nigro) e ha anche tradotto in dialetto montalbanese Ruzante e Leopardi.
Cosa può dirci del film?
«E’ un film corale, scritto da Andrea Di Consoli, che mi ha molto colpito per la scrittura. Compatta, solida, con dialoghi calibrati. Per essere un film ambientato in Basilicata, è il primo fra quelli che ho letto dove non c’è retorica».
Non c’è il piagnisteo, intende?
«Sì, oppure quella cosa terribile di far leva sempre sui luoghi comuni».
Vuol dire Carlo Levi et similia?
«Povero Levi, lui è innocente».
Nel senso di “levismo”.
«Sì, il “levismo”, e tutto ciò che gira attorno ai Sassi di Matera e alla loro oleografia. Questa scrittura è formidabile per Potenza. Esalta le potenzialità cinematografiche di questo paesaggio urbano. Non sono il primo a dire che l’impatto dello skyline di Potenza sia scioccante. Nessuno s’immagina che il centro di Potenza sia così delizioso. E’ tanto sommerso dal disordine, dalla caoticità di questo gomitolo di strade che si sviluppa attorno alla rocca di Potenza, in quelle strutture strategiche tipo l’ospedale che è sempre un’avventura raggiungere».
Insomma, una sorpresa.
«La grande sorpresa è scoprire che questo è il luogo ideale per raccontare questa storia».
Chi è il suo personaggio?
«E’ simile agli altri. Ci sono storie che si intrecciano in questa notte…».
La storia dura l’arco di una notte?
«Sì, c’è unità di tempo».
Un film “aristotelico” con l’unità di luogo, tempo e azione…
«Tutte le storie confluiscono in un vuoto esistenziale, in un’insoddisfazione, nella ricerca di un equilibrio, di una centratura».
Qual è il suo rapporto con Potenza?
«No, ho un rapporto solo d’impatto visivo. Quando scendo da Firenze, dove abito, e con l’auto quando arrivo al bivio di Contursi sono sempre indeciso: vado per Potenza o per la Val d’Agri? Per ora è fifty-fifty. L’impatto di Potenza è questa New York improbabile che appare dalla Basentana».
Cosa vede lei?
«Un ponte bellissimo e accanto cose come una stazione che esiste e non esiste. Era chiamata anche Inferiore (oggi è denominata Centrale, ndr), che ti dà proprio un senso di sperdimento. Una volta, molti anni fa, ricordo che il treno, diretto a Metaponto, si fermò a Potenza. Ci scaricarono tutti alla stazione Inferiore e non c’era neanche un bus che ci portasse nella piana di Metaponto. Io attraversai il ponte e mi misi sulla Basentana sperando che passasse una macchina».
Passò?
«Dopo mezz’ora una 127. E si fermò, perché anche a Potenza ci sono i miracoli. Mi portò a Craco e da lì mi arrangiai con un amico fino a Montalbano».
Non è mai più venuto a Potenza?
«Venni una ventina di anni fa. Ricordo un centro completamente disastrato, disordinato. Ora invece ho fatto questa bellissima scoperta: è un centro ordinato, ben tenuto. Un bel salotto. Infatti tutte le mattine mi alzo e faccio due o tre vasche di via Pretoria».
Cos’altro ha visto?
«La prima cosa che ho fatto è stata visitare il teatro Stabile, fortunatamente aperto ai visitatori. Ho fatto una domanda, risultata tragica. Ho chiesto: chi è stato l’ultimo direttore artistico di questo teatro? Mi hanno risposto: veramente se ne occupa l’assessore. E lì ho capito che questa struttura, bellissima, non viene assolutamente sfruttata se non per convegni politici o piccole recite locali».
Ci sono state belle stagioni teatrali.
«Sì, ma bisogna capire che il teatro è un investimento culturale, che non è una fabbrica dove si produce reddito, ma offerta culturale. Comunque ho scoperto in una sala il prestigioso pianoforte di Ruggero Leoncavallo».
Cosa è per lei girare un film nella sua regione?
«Per me è un evento eccezionale. Era successo anche con Un paese perfetto, ma non era partito come questo dalla Basilicata, bensì da Roma».
E peraltro lì inventavano un comune inesistente, mentre questo film è ambientato a Potenza.
«Sì, è così».
Lei ha recitato in film come La scuola, Sud, Il portaborse, La seconda volta. Non ha l’impressione che non si producano più opere come quelle, pietre miliari non solo cinematografiche ma anche sociali e culturali, vere rappresentazioni di epoche, fenomeni, svolte della storia?
«No, non è vero. Un film come Il traditore di Bellocchio rientra perfettamente nel tuo identikit. Sicuramente si è ridotta la quantità di film, l’industria si è indebolita, ma da prima del Covid-19».
E perché, secondo lei?
«Perché materialmente gli strumenti che abbiamo tutti, gli smartphone, sviliscono il racconto pensato, la scrittura che deposita. Tutte le storie sono veloci. La superficialità è dietro l’angolo. Per il cinema bisogna scrivere un soggetto, calibrare lo sviluppo dei personaggi e della storia, dei dialoghi e delle immagini, capire che tipo di messaggio lasciare. C’è tanto pensiero. Questo invece non accade nei video che circolano, prodotto di consumo per le giovani generazioni».
Cosa fa quando viene in Basilicata?
«Ho una casa a Montalbano. Ho la mamma, mia sorella, mio cognato, mia nipote. I miei amici. E poi l’oliveto di mio padre che porto avanti. La mia vita è dissociata fra Firenze dove vivo e Montalbano dove vengo spesso».
E’ il suo buen retiro?
«Non direi: quando vengo a Montalbano non mi fermo mai». (ride)
Che ricordi ha di quando era giovane a Montalbano?
«E’ il luogo dove sono cresciuto, dove mi sono formato. Dove ho fatto le elementari e ho incontrato un maestro che mi ha insegnato tanto».
Cioè? L’ha instradato sulla via della recitazione?
«Sì. Mi ha insegnato che la cosa fondamentale di un attore è quella di restituire il testo che legge o che recita».
Con le poesie?
«E anche con i racconti. Una grande attenzione alla punteggiatura, alla pausa, alla congiunzione. Sembrano cose banali, ma sono quelle che io non dimentico».
Le sue battute al cinema sono citate da generazioni. Lei ha affrontato praticamente sempre ruoli da caratterista con un approccio da attore a tutto tondo.
«Però sono sempre stato utilizzato come caratterista».
C’è un ruolo da protagonista che la aspetta nei suoi progetti?
«Questa è una domanda da fare ad altri. E’ una speranza. Mi trovo stretto nel ruolo da caratterista, vorrei fare un personaggio completo, che ha un respiro. Con Sorrentino, in The New Pope, ho fatto sempre un “carattere”, ma distribuito su più puntate, recitando sia in italiano sia in inglese, è stato forse il punto più alto della mia carriera finora. Anche se ho partecipato a film che sono nella storia del cinema».
Che progetti ha?
«Non ne ho la minima idea».
Cioè?
«Faccio sempre una cosa per volta, su cui mi concentro. Per ora è questo film, anche con pochi giorni di girato. Sto scrivendo poesie, la scrittura è il mio nutrimento».
Fa parte del suo essere lucano questo concentrarsi su un progetto alla volta?
«Questa parola non la dovevi dire». (sorride)
Perché?
«Io non credo assolutamente alla “lucanità”. Non credo ci siano caratteristiche per cui un lucano si può distinguere da un veneto o da un abruzzese o da un trentino. La poesia Lucani nel mondo di Sinisgalli, a mio parere, va letta con ironia, altrimenti si cade nella retorica. Per me Sinisgalli ha preso in giro la parte deteriore di sé stesso». (recita la poesia con voce impostata e con voce ironica)
Dove avete girato a Potenza?
«Personalmente in interni. Ma ci sono varie location, rione Cocuzzo, il parco fluviale. Ribadisco: questa New York improbabile ha un grande futuro cinematografico. Proprio le zone più degradate, più fatiscenti, disordinate e caotiche».
Ha conosciuto qualcuno qui a Potenza?
«Sì. Tra gli altri, il poeta potentino, di cui nessuno sa niente, Rocco Brindisi. E’ stata la cosa più bella di questo soggiorno. Anni fa avevo tradotto, su sua gentilissima concessione, la sua Pane cantato in dialetto montalbanese. Ho voluto incontrarlo. Abbiamo passeggiato con grande piacere. E siamo stati anche in silenzio ad ascoltare il fiume».
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