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L'ingresso del Palazzo di giustizia di Potenza

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Iannuzzi: «Così si creano pm asserviti alla politica»; l’ex presidente reggente della Corte d’appello di Potenza evidenzia i rischi della separazione delle carriere di giudici e inquirenti proposta dal ministro della Giustizia


A scanso di equivoci, voglio subito premettere che sono fermamente contrario a separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri, anche alla luce della mia esperienza ultratrentennale di giudice penale (prima di pretore, poi di giudice del dibattimento e del riesame, di gip e di magistrato di appello), che ha vissuto anche il passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.
Si tratta di una riforma che contrasta in primo luogo con i principi, affermati anche in ambito europeo, che incoraggiano l’autonomia del pubblico ministero, quale presupposto fondamentale dell’indipendenza del potere giudiziario, condizione indispensabile per una giustizia equa, imparziale ed efficiente.

Anzi, il rischio é che, indipendentemente dalle intenzioni del legislatore, si apra un varco pericoloso, che condurrà alla graduale, ma inevitabile subordinazione del pm dal potere esecutivo, mediante la sottoposizione al controllo politico dell’attività di indagine e delle determinazioni riguardanti l’esercizio dell’azione penale.
Non sfugge, invero, che l’attività del pm presenta alcuni margini di discrezionalità che sono sottratti al controllo esterno, riguardanti spazi che non sono garantiti dall’obbligatorietà dell’azione penale (si pensi ad esempio alla direzione da dare all’indagine e alla scelta di richiedere misure cautelari); e, tuttavia, la possibilità che questi spazi di discrezionalità siano condizionati dalle logiche, di natura squisitamente politica, del potere esecutivo, fa si che la proposta di separare le carriere costituisca un rimedio peggiore del male che vuole combattere.

Di contro l’indipendenza del pubblico ministero e l’ancoraggio della sua funzione alla cultura della giurisdizione costituiscono una garanzia sia per la persona sottoposta al procedimento penale che per la vittima del reato, laddove, invece, questi elementi di garanzia verrebbero inevitabilmente inquinati dall’essere il pubblico ministero attratto nell’orbita dell’esecutivo, che ragiona ed opera con logiche diverse da quelle giudiziarie. E questo – si badi bene – a prescindere dalla maggioranza politica del momento, da sempre poco incline ad accettare il controllo di legalità da parte della magistratura.

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In altri termini è necessario che i magistrati, sia che appartengano alla carriera requirente che a quella giudicante, siano espressione di una cultura unica, quella giurisdizionale, che garantisce maggiore attenzione verso i diritti delle persone coinvolte nel procedimento.
Separare in maniera irreversibile le carriere e creare degli steccati insormontabili ritengo sia un grave errore, anche perché porterebbe inevitabilmente il pubblico ministero ad essere assimilato più alla polizia giudiziaria, privandolo di quella autonomia nell’esercizio della funzione, che significa anche applicare la legge in maniera uguale per tutti.

In altri termini esiste il pericolo che possano essere svolte compiutamente solo le indagini che siano compatibili con gli interessi della maggioranza governativa, ovvero il rischio che la direzione dell’attività investigativa non sia rispondente alle esigenze di verità e giustizia.
Al riguardo, gli argomenti posti a sostegno della proposta di separare le carriere appaiono estremamente deboli, se non privi di fondamento.

Si afferma, tra l’altro, che la comunanza di carriere, rappresentata icasticamente con il caffé che pm e giudice prendono insieme, incide negativamente sul processo, determinando la dipendenza di chi controlla rispetto a chi deve essere controllato. Tuttavia, non si comprende perché mai questo valga nei rapporti tra pm e giudice, e non anche con riguardo ai rapporti fra i giudici dei diversi gradi del processo, cioè fra giudici di primo grado, di appello e di cassazione, dal momento che anche costoro vivono in ambienti contigui, in cui non mancano le possibilità di frequentazione.
Peraltro, se si vuol seguire questa linea di pensiero, non può sfuggire come capiti spesso che anche gli avvocati prendano il caffè con i magistrati, ovvero si trovino a discutere insieme di problemi comuni, sedendo allo stesso tavolo, senza che cio desti alcuno scandalo, ovvero costituisca un buon motivo per far temere la perdita di autonomia nelle decisioni che interessano quegli avvocati.

Al di là di questi aspetti di stile, a mio avviso del tutto secondari, va detto che ciò che è davvero importante è che venga salvaguardato l’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale, che si badi bene non è un privilegio dei magistrati, bensi un patrimonio di interesse generale.
Solo un magistrato dell’accusa indipendente ed attento ai diritti delle persone nei confronti delle quali indaga può essere una garanzia di tutela di tutti i cittadini. Solo in questo modo si può sperare di avere una giustizia che sia, tendenzialmente, uguale per tutti, e non attenta solo a salvaguardare gli equilibri contingenti, siano essi politici o economici.

Quando si sostiene che la separazione delle camiere esiste in molti paesi democratici, si dimentica che molti di questi paesi invidiano il nostro sistema e comunque che lì esistono sistemi di controllo o sanzionatori, per chi viola le regole, che da noi non esistono, ovvero sono meno efficaci.
In realtà, di separazione delle camiere si parla da anni, sin da quando nel 1989 entro in vigore la riforma del codice di procedura penale, che cambiò il modello processuale, trasformandolo da inquisitorio ad accusatorio.
Ricordo che quando iniziai la mia esperienza di pretore svolgevo le indagini, mandavo a giudizio e pronunciavo la sentenza nel medesimo procedimento. Malgrado questa contaminazione delle funzioni, tipica del cd. modello inquisitorio, che oggi suonerebbe come una grave anomalia processuale, allora era del tutto normale che l’imputato venisse assolto dal giudice che lo aveva mandato a giudizio, spesso dopo aver ammesso in dibattimento le prove offerte dalla difesa.

A quell’epoca nessuna delle parti metteva in discussione la terzietà e l’imparzialità del giudice, poiché l’imputato e la parte civile, che erano portatori di interessi contrapposti, sapevano di trovarsi di fronte ad un giudice di cui era garantita l’autonomia e l’indipendenza, cioè delle qualità fondamentali su cui poggia la fiducia nella giustizia!
Né si comprende la ragione e l’effettiva utilità che avrebbe la separazione delle carriere per il funzionamento della giustizia, ove si consideri che la distinzione tra la funzione giudicante e quella requirente è un dato normativo ormai conclamato e consolidato per effetto della riforma Cartabia, e che oggi il magistrato può transitare ad una funzione diversa una sola volta nell’arco della sua vita professionale ed entro i primi dieci anni di camiera.

Senza dimenticare che già in precedenza il passaggio da una carriera ad un’altra costituiva un fatto piuttosto raro, di guisa che il rischio che l’interacambiabilità delle funzioni tra giudice e pm faccia venir meno la terzietà di chi è chiamato a giudicare appare privo di consistenza. Basti pensare che, secondo gli ultimi dati ministeriali, ogni anno in media sono meno di 20 i magistrati che da giudice diventano pm e meno di 30 quelli che da pm passano alla funzione giudicante, su di una platea di circa 10.000 magistrati!
In conclusione, un concorso separato ed una formazione professionale diversa, sino a porre il pubblico ministero nell’orbita dell’esecutivo, a mio avviso creerebbero le condizioni ordinamentali per minare inevitabilmente l’autonomia del pm, posta – si badi bene – anche a tutela dell’indagato/imputato, e finirebbero per rendere l’accusa un esercizio discrezionale strumentalizzabile da parte del potere politico, con buona pace di una giustizia uguale per tutti.

Ed è una prospettiva questa, che, alla luce della nostra Costituzione e del diritto europeo, è davvero inaccettabile, tanto più che la separazione delle carriere non era solo un vecchio pallino di Bettino Craxi, prima, e di Silvio Berlusconi, poi. In realtà, la primogenitura spetta alla loggia massonica P2 di Licio Gelli, che la inserì nel pericoloso (per le istituzioni democratiche) piano di rinascita.
E questa coincidenza non può non costituire un motivo di seria riflessione.

*già presidente reggente
della Corte d’appello di Potenza

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