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La conferenza stampa a Matera sull'inchiesta che ha scosso la sanità lucana (foto A. MUTASCI)

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NON è la sfilza dei reati contestati al presidente della giunta regionale Marcello Pittella (agli arresti domiciliari) e agli altri maggiorenti  della sanità lucana, la cosa che suscita più sconcerto e indignazione dopo l’inchiesta della Procura di Matera. Le accuse vanno provate in un’aula di tribunale; fino all’ultima parola della Cassazione, per il governatore e per tutti gli altri coinvolti nel pasticciaccio dei concorsi dell’Asm, vale il principio sacrosanto della presunzione di innocenza. Non è questo il punto, anche se per la prima volta nella storia, un presidente lucano è stato arrestato. La scelta traumatica di fermare Pittella, a pochi mesi dalle elezioni, con in tasca il mandato per la ricandidatura, ha sollevato interrogativi. Per le conseguenze politiche in questo delicato momento storico; per i tempi lunghi della giustizia italiana. Forse neanche una decisione favorevole del tribunale del Riesame potrebbe bastare per fargli riprendere la corsa. Se ci sono responsabilità è giusto che paghi, ma se invece dovesse trattarsi di un abbaglio, quando tutto sarà chiarito, magari fra qualche anno, chi potrà mai risarcire il danno arrecato?

Il problema prima di essere giudiziario è morale. E riguarda tutti, compresi magistratura e mondo dell’informazione. Va fatta una riflessione seria, senza cedere al populismo, alla ferocia giustizialista e all’odio sociale. Non è giusto che tutto il marcio venga identificato ora con le sembianze di Marcello Pittella. Questo sistema di corruttela e complicità, di scambio di favori e di clientele, di rapporti feudali, di assoluto disprezzo per il rispetto delle regole e dei meriti, esiste da tanto. Non è un’esclusiva della Basilicata; anche se qui più che altrove, si fatica a far capire che è immorale, ingiusto, spregevole. Semmai la colpa di Pittella è quella di aver fallito nella missione che si era dato all’indomani delle elezioni. Al di là di come si evolverà l’inchiesta, resta la delusione per una esperienza politica finita nel peggiore dei modi. Doveva e poteva essere l’uomo del cambiamento; invece è rimasto risucchiato nel vortice di un modello di relazioni e di approcci vecchio, fuori dal tempo. Un modello pieno di ingiustizie, che mortifica professionalità e meriti, che non dà opportunità a chi è fuori dal cerchio magico, oppure non vuole sottomettersi per dignità e orgoglio.
Pittella ha preferito gestire in modo personale l’incarico di presidente, puntando su amici e fedelissimi, anche a costo di sacrificare l’efficienza. È rimasto insensibile e impassibile alle critiche che gli venivano da dentro il Pd, dalle forze del centrosinistra, dai sindacati e dai partiti di opposizione. Non ha ascoltato nessuno.

Le raccomandazioni non sono un frutto dei nostri anni. Esistono da secoli. Non sono un reato, almeno non sempre. Ma un sistema così chiuso, impenetrabile, esclusivo per amici e complici, ha pochi altri riscontri in Italia. Una cricca feudale che mette i brividi. Una cricca che si muove, agisce, trama, dispone con un’arroganza che lascia allibiti. E guai a chi cerca di cambiare le cose, critica, denuncia.
Alcuni degli arrestati in questi anni hanno avuto nei confronti dei giornali e dei giornalisti liberi atteggiamenti calunniosi, intimidatori, offensivi. Fino alla rappresaglia. Mai una volta che avessero ammesso un ritardo, un errore, un servizio suscettibile di miglioramento. E adesso che Pittella ha questo guaio giudiziario da sbrogliare, le sue funzioni sono passate proprio all’assessore che ha la responsabilità (in ogni senso) del settore. Una beffa nella beffa, visto che da mesi non spiccica una sillaba su tutte le emergenze e le lamentele, a cominciare dalle liste d’attesa e dalla qualità dei servizi. Possibile che con tutto il trambusto emerso nelle parole degli inquirenti e dalle intercettazioni, l’assessore alla sanità sia stato tagliato fuori da questo intreccio di concorsi truccati e brogli? Possibile che non si sia mai accorta di nulla e non abbia mai avuto da obiettare?

Il modello Basilicata si basa su un patto scellerato tra potentati familiari e una parte della classe dirigente. Quella più spregiudicata e scaltra. Dopo il dominio di Colombo, si sono scatenati gli appetiti dei signori delle tessere, dei custodi del consenso. La morte di Luongo ha lasciato un vuoto incolmabile. Chi rientra dentro queste collusioni vive bene. Per gli altri è nera. Ma è ingiusto dare la colpa solo ai politici. C’è una parte della burocrazia lucana che alimenta, sfrutta per interessi familiari e personali, questa decadenza. Come moderni gnomi lucrano sullo stato di necessità, sulla disperazione di una comunità che chiede risposte, aiuti. Un lavorìo che inizia appena conquistato un incarico, una posizione di privilegio (grazie alla solita spintarella dei partiti). Al servizio delle clientele non della collettività.

“Obiettivo lavoro”, è la parola d’ordine che Marcello Pittella ha scelto per la rincorsa al suo secondo mandato. Dalle intercettazioni nelle ultime inchieste in Basilicata, vengono fuori degli spaccati di vita esemplari: gli intrighi di padri eccellenti con responsabilità pubbliche; e di come nella pratica viene sbrigata la questione lavoro. Posti e addirittura tesi di laurea garantita e scritta per i figli, in cambio di commesse, appalti e agevolazioni.
Cosa non farebbe un genitore? E qui scatta l’alibi e la comprensione popolare. Si saldano le convenienze e le esigenze. Trova legittimità una logica: quello che ha avuto lui oggi, con la scorciatoia della raccomandazione, un giorno potrebbe toccare anche a me. Chiunque farebbe la stessa cosa. E poi non è nemmeno un reato. Fine.

Così si torna al punto di partenza. Per colpa di questo circolo vizioso, la Basilicata si ritrova in un oceano di problemi. Con una classe dirigente medio alta non all’altezza delle complessità di oggi. Si mandano avanti gli incapaci. Si mortificano i meritevoli, banalizzando sacrifici, competenze, anni di studi. Soprattutto in un settore delicato ed essenziale come la sanità. Preferire un primario non stimato da tutti, solo perché amico, rispetto a un altro, è da incoscienti.
Alla fine questo capitale umano scadente di raccomandati fa danni, condiziona la qualità della vita di una regione intera. Avrebbero dovuto pensarci da tempo i partiti, senza arrivare alle manette. Invece il sistema dei mediocri privilegiati è diventato funzionale alle scalate elettorali, alle ambizioni dei politici. E la giostra riparte sulla pelle della collettività, che si ritrova a lottare tutti i giorni con gli incapaci nei posti più importanti. Tanto non è reato. Dimenticando che si possono commettere scempi e ingiustizie anche senza violare il codice penale.

 

 

 

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