Fumo nero dal Centro olio di Viggiano
6 minuti per la letturaPOTENZA – È destinato a restare avvolto da una cortina di fumo degna di un classico segreto di Stato il rapporto tra le estrazioni di petrolio e gas effettuate da Eni in Val d’Agri, e la salute dei residenti nell’area. Con la complicità proprio delle istituzioni incaricate di dare risposte ai cittadini su problematiche di questo tipo.
È la sconcertante realtà che emerge, inequivocabile, dall’epilogo dell’accordo siglato a settembre del 2018 tra la Regione Basilicata e l’Istituto superiore di sanità per provare a fare chiarezza sul tema. A giusto un anno di distanza dalle rivelazioni del Quotidiano del Sud, che a settembre del 2017 aveva svelato le conclusioni shock della prima vera indagine epidemiologica effettuata nei dintorni del Centro olio di Viggiano. Con la scoperta di un’«associazione di rischio sanitario statisticamente rilevante» tra i fumi dell’impianto e i picchi di mortalità e ricoveri per patologie cardiovascolari e respiratorie registrati dal 2000 al 2013 a Viggiano, e nel vicino comune di Grumento Nova.
Venerdì scorso il caso è finito al centro dell’ultima seduta della giunta regionale presieduta dal governatore Vito Bardi (centrodestra), che ha ereditato il dossier dal suo predecessore Marcello Pittella (Pd). Ma più che altro si è trattato di prendere atto della situazione, dal momento che il 4 settembre sono scaduti i tre anni previsti dall’accordo Regione-Iss per portare a termine il progetto di ricerca intitolato “Valutazione dell’incidenza dei fattori ambientali sullo stato di salute della popolazione residente con particolare riferimento alle attività estrattive petrolifere”.
Nella delibera approvata col voto unanime di Bardi e dei suoi assessori si menziona una comunicazione inviata in merito alla scadenza all’Istituto superiore di sanità, «che nulla ha eccepito al riguardo». Ma si aggiunge, e qui sta l’aspetto sorprendente della vicenda, «che nel tempo di vigenza dell’accordo l’Iss non ha prodotto relazioni né sullo stato di avanzamento delle attività progettuali né sugli esiti finali, seppur dovute in forza dell’articolo 6 dell’accordo e malgrado i numerosi solleciti inoltrati».
Da settembre del 2018 a settembre del 2021: il nulla. E a quanto pare senza alcun tipo di spiegazione. Quasi che la navicella con le ansie e le preoccupazioni di tanti lucani, e non solo, fosse approdata in un “porto delle nebbie”, al pari di altri, ben noti, palazzi capitolini. Quelli delle verità insabbiate e dei potenti che la fanno sempre franca.
Una situazione ancora più sconcertante, se si considera che l’accordo con la Regione Basilicata risale a un anno e mezzo prima dell’emergenza scatenata, a febbraio del 2020, dalla pandemia di covid 19, che pure ha visto impegnato in prima fila l’Istituto superiore di sanità. E non può passare inosservato nemmeno che quest’ultimo sia un ente che dipende dal Ministero della Salute, dove da settembre del 2019 la Basilicata può contare su un ministro lucano come Roberto Speranza (ArticoloUno).
Da registrare, c’è poi un altro aspetto della vicenda che rende il ruolo avuto dall’Istituto superiore di sanità ancora più dubbio. A marzo del 2018, infatti, fu l’allora direttrice del Dipartimento ambiente e salute dell’Iss, Eugenia Dogliotti, a criticare sotto una serie di aspetti l’indagine epidemiologica, denominata Valutazione d’impatto sanitario, commissionata nel 2014 dai comuni di Viggiano e Grumento Nova, al costo di poco meno di 1.200.000 euro, al gruppo di studio Cnr – Università di Bari – Dep Lazio, guidato dal professor Fabrizio Bianchi dall’Istituto di fisiologica clinica del Cnr di Pisa. Critiche raccolte in una relazione di una quindicina di pagine inviata alla Regione Basilicata rispondendo alla richiesta di un parere al riguardo.
Una volta filtrate alla stampa, ad ogni modo, proprio le critiche di Dogliotti sarebbero stato rilanciate anche da Eni, sostenendo l’assenza di prove di «una correlazione tra il Centro olio e un aumentato rischio per la salute della popolazione».
Proprio per questo, per restituire certezza ai cittadini disorientati dalle tesi contrapposte, la giunta regionale dell’epoca decise di sottoscrivere l’accordo di durata triennale, scaduto agli inizi di settembre, per un approfondimento ulteriore con l’Istituto superiore di sanità, che per missione svolge proprio «funzioni di ricerca, sperimentazione, controllo, consulenza, documentazione e formazione in materia di salute pubblica». E venne stanziato anche un corrispettivo cospicuo per quanto richiesto: 980mila euro da prelevare dal Fondo per lo sviluppo e la coesione territoriali.
D’altronde, era stata la stessa Dogliotti a evidenziare la necessità di ulteriori approfondimenti del lavoro svolto dal gruppo di studio Cnr – Università di Bari – Dep Lazio, «sulla base delle criticità emerse nella fase di stima dell’esposizione». S’intende, ovviamente, esposizione alle emissioni del Centro olio di Viggiano.
Nel testo dell’accordo sottoscritto a settembre del 2018 si faceva riferimento a divergenze da chiarire tra almeno 3 distinti lavori preesistenti. Incluso uno studio sulla mortalità tra i residenti dei comuni della Val d’Agri dell’ufficio statistico del medesimo Istituto superiore di sanità, che nel 2016 aveva escluso «criticità», pur evidenziando una serie di «eccessi di mortalità».
In particolare: «per tumori maligni allo stomaco, per infarto del miocardio, per le malattie del sistema respiratorio nel loro complesso, per le malattie dell’apparato digerente nel loro complesso (ed, in particolare, per cirrosi e altre malattie croniche del fegato)», per entrambi i sessi. Quindi, per i soli uomini: «per mortalità generale, per leucemia linfoide (acuta e cronica), per diabete mellito insulinodipendente, per le malattie del sistema circolatorio nel loro complesso (ed, in particolare, per le cardiopatie ischemiche), per le malattie respiratorie croniche, per sintomi, segni e risultati anormali di esami clinici e di laboratorio, non classificati altrove, e per cause esterne». E per le donne: «per le malattie respiratorie acute».
La correlazione tra esposizione alle emissioni e condizioni sanitarie, invece, era stata al centro della Valutazione d’impatto sanitario del Centro olio dell’Eni di Viggiano, resa pubblica a settembre 2017, dopo le rivelazioni del Quotidiano del Sud. Un lavoro di 500 pagine in cui si evidenziava: «un eccesso di mortalità nel periodo 2000-2013 per malattie del sistema circolatorio nelle donne residenti a Viggiano, rispetto sia al livello medio di mortalità regionale sia a quello del complesso dei 20 comuni della Val d’Agri». Eccesso che sarebbe stato «significativamente» associato all’esposizione all’«inquinamento di origine Cova (Centro olio della Val d’Agri, ndr)». Allo stesso modo di: «un rischio di sintomatologia respiratoria più pronunciato», in prossimità dello stesso impianto.
Mentre Eni, a dicembre del 2017, aveva escluso la fondatezza dell’allarme sanitario, sostenendo che un confronto tra la Regione Basilicata col resto d’Italia, avrebbe fatto emergere a solo alcune «problematiche sociodemografiche e legate a fattori di rischio per le malattie croniche attinenti gli stili di vita (vedi tassi elevati di obesità e diabete)». Retrodatando gli eccessi di mortalità, ad esempio per malattie cardiovascolari, a prima ancora dell’avvio della produzione del Centro olio di Viggiano.
Nella delibera approvata venerdì scorso dalla giunta regionale si prende atto «del mancato espletamento delle attività di cui al progetto di ricerca», che era stato affidato all’Istituto superiore di sanità e viene annullato lo stanziamento di 980mila euro previsto. Soldi che secondo l’accordo andavano versati in 4 rate a fronte di altrettante richieste di pagamento, che l’Iss avrebbe dovuto corredare da relazioni intermedie sui risultati delle attività. Ma a Potenza, in tre anni, non sono state mai recapitate né le prime né le seconde.
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