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Prende corpo l’ipotesi di suicidio sulla morte del 22enne magrebino al Cpr di Palazzo San Gervasio. La famiglia, in attesa dell’autopsia, contesta qualsiasi tesi. Parla la mamma del ragazzo


PALAZZO SAN GERVASIO – Morte del ventiduenne magrebino nel Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio: ipotesi suicidio sempre solida, secondo alcune fonti mediche. Tesi, però, contestata dalla mamma del ragazzo. Secondo fonti mediche, in attesa sempre dei risultati dell’autopsia, il ragazzo sarebbe morto a causa di un cocktail di farmaci e forse droga.
Ma a questa ipotesi si oppone con forza la famiglia di Oussama Darkoui (questo il vero nome della vittima): «Non si è suicidato -racconta la mamma, Leila, in un’intervista al Corriere della Sera -. Quel giorno mi chiamò per riferirmi che sarebbe uscito il 20 agosto». Quindi, ecco perché la mamma, disperata dalla perdita del figlio, insiste affinché si faccia chiarezza su cosa sia realmente accaduto quel pomeriggio del 4 agosto all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio.

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La donna, sempre nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, parla di suo figlio come di un ragazzo mite, altruista e generoso che aiutava la famiglia. «Era un ragazzo molto buono – racconta la mamma -. Tutti gli volevano bene. E’ andato via da qui per aiutare la nostra famiglia, e invece ha trovato la morte. Una morte assurda crudele – aggiunge la donna – chi lo ha ucciso ne risponderà davanti a Dio, ma la giustizia degli uomini, se esiste, deve dirci qual è la verità».
C’è da dire, tuttavia, che pochi giorni prima della morte il ragazzo fu salvato dopo che aveva ingerito dei pezzi di vetro.

Intanto, si attendono i risultati dell’autopsia. Solo così si potrà sciogliere questo giallo che all’inizio di agosto ha portato ad episodi di violenza e disordini gravi all’interno del Centro (LEGGI LA NOTIZIA). Prima le proteste e le urla, poi, in serata, un incendio. Due «celle» dei migranti sulle 17 totali andarono carbonizzate. I vigili del fuoco impiegarono tre ore per domare le fiamme. Cinquanta i polizziotti in tenuta antisommossa che arginarono la ribellione. Una trentina di militari dell’Eservito raddoppiarono il cordone intonro alla cinta muraria del Centro di permanenza per i rimpatri.

Nei giorni successivi seguirono le visite ispettive di consiglierei regionali e parlamentari per verificare le condizioni di vita all’interno del Centro. Ma anche per verificare se Oussama fosse stato oggetto di maltrattamenti e da parte di chi. Dalle visite degli esponenti politici emersero Condizioni di vita non degne di un paese civile elesive della dignità dei migranti.

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