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Il boss pentito Antonio Cossidente

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POTENZA – Che in Basilicata a un certo punto sia esistito un clan «basilischi» è «storia», come pure la tensione con lo storico gruppo egemone sugli affari criminali di Potenza e dintorni: prima capeggiato da Pinunccio Gianfredi e Renato Martorano; e poi da quest’ultimo e Dorino Stefanutti e lo ha ribadito, ieri in videocollegamento col Tribunale di Potenza, l’ex boss pentito Antonio Cossidente.

Cossidente, organizzatore, reo confesso, dell’agguato in cui vennero uccisi Gianfredi e la moglie, nel 1997, è stato sentito come teste dell’accusa nel processo sui nuovi affari del clan Martorano-Stefanutti e ha ribadito la sua verità anche sulla nascita della “famiglia dei basilischi”, negli anni ‘90 del secolo scorso, che la Cassazione ha ridotto a un mero tentativo di costituire una quinta mafia tutta lucana. Demolendo almeno un quindicennio di indagini avviate dall’omicidio, a Potenza, del poliziotto Francesco Tammone, nel 1996, trucidato dopo aver interrotto un incontro tra alcuni esponenti della nuova famiglia.

Cossidente, che è collaboratore di giustizia dal 2010 e sta scontando agli arresti domiciliari la condanna per il duplice omicidio Gianfredi, ha parlato di un riconoscimento reciproco, a livello criminale, tra il suo gruppo e quello di Martorano e Stefanutti. Ma raccontando dei rapporti col figlio di Stefanutti, finito a sua volta sotto protezione dopo aver deciso di prendere le distanze dal padre, è tornato anche su quanto riferito nelle scorse udienze proprio da Natale Stefanutti. Vale a dire dei propositi di vendetta che Donato Lorusso, nipote di Gianfredi nonché reggente del clan Martorano-Stefanutti, avrebbe nutrito nei confronti di suo figlio.

«Lui è rimasto a Potenza a fare la sua vita e ha troncato ogni rapporto con me». Ha spiegato Cossidente. «Che senso ha prendersela con lui? Anche tra criminali queste cose non si fanno». L’ex boss ha anche provato a sminuire il “peso” di Lorusso, evidenziandone la scarsa caratura criminale a confronto con quella dei veri capi del presunto clan rivale. Ha speso parole di considerazione per Stefanutti («Una delle poche persone leali che ci sono. Un uomo fatto a uomo»). Ma ha escluso di aver mai suggerito in passato a Martorano di collaborare con la giustizia. Cogliendo l’occasione per farlo proprio in risposta alla domanda rivoltagli da uno dei difensori. Replicando all’avvocato Pantaleo Chiriaco, che assiste Lorusso, Cossidente ha fornito la sua versione dei fatti anche rispetto alle accuse mossegli dall’ex pentito Nino Lo Giudice, di Reggio Calabria. Nel 2014, infatti, Lo Giudice si era reso latitante abbandonando il programma di protezione testimoni. Per poi inviare a giornali e avvocati dello stretto un memoriale in cui denunciava di essere stato manipolato, e spinto a collaborare con la giustizia, da alcuni magistrati, e da Cossidente.

«Ci siamo incontrati nel carcere di Rebibbia». Ha raccontato l’ex boss potentino. «Era depresso e gli ho detto soltanto che se aveva scelto di collaborare con la giustizia doveva presenziare ai processi in cui era convocato per testimoniare e non poteva tirarsi indietro». Dopo il botta e risposta, ad ogni modo, l’avvocato Chiriaco ha anticipato la richiesta di acquisire il memoriale di Lo Giudice per una compiuta valutazione al riguardo.

Cossidente ha replicato con fermezza anche alle domande postegli da un altro avvocato, Gianfranco Robilotta, che difende un altro degli imputati, Giovanni Tancredi. «Non serve una condanna definitiva per mafia per essere un mafioso». Così l’ex boss ha liquidato i rilievi del legale sulle pronunce della Cassazione che hanno negato l’esistenza di una vera e propria quinta mafia. «I basilischi sono esistiti e questo è un fatto, è storia», ha sostenuto il pentito Cossidente. «Poi a livello processuale possono succedere tante cose. Io stesso sono stato assolto anche per reati che avevo commesso». Il processo “Lucania felix” a carico di Martorano e gli altri riprenderà il 17 giugno per l’esame di altri testioni dell’accusa.

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