L’ingresso della ditta dei Pepe in via della Tecnica, a Potenza
3 minuti per la letturaPOTENZA – Quindici anni e sei mesi di reclusione divisi per sei.
Si è concluso così ieri pomeriggio a Potenza il processo per un presunto traffico illecito di rifiuti ferrosi di base nella ditta di autodemolizioni di Antonio e Maurizio Pepe, padre e figlio anche noti col soprannome di “Bancanterra”, nella periferia sud del capoluogo.
I giudici hanno rivisto al rialzo le richieste formulate nelle scorse udienza dell’accusa, che si erano attestate su pene dai 2 anni e 8 mesi di reclusione a scendere.
I 2 imprenditori, infatti, dovranno scontare, rispettivamente, 3 e 4 anni di reclusione. Pene più blande, invece, sono state inflitte ai loro dipendenti. Come Michele Romano, che dovrà scontare 2 anni e 6 mesi; e Giovanbattista Calace, Sergio Ligrani e Mario Di Tolla, che dovranno scontarne soltanto 2
Assolti, infine, tutti gli altri imputati: Vito Rotunno, Domenico Acerenza, Maria Troia, Luciana Pepe, Antonio Potenza, Slavoliub Iojan Bradu, Licuta Gorgan Dorinel e Cosmin Iojian Paul.
Nel verdetto del Tribunale si legge che è stata ritenuta sussistente anche una vera e propria associazione a delinquere costituita dai Pepe e dai loro fedelissimi. Un’ipotesi che nel 2015 era stata bocciata dal giudice per le indagini preliminari che firmò gli arresti domiciliari per i due imprenditori, e dal Tribunale del riesame che respinse l’appello presentato dalla procura per l’aggravamento delle misure cautelari.
Stando a quanto ricostruito dagli investigatori del vecchio Corpo forestale, tra il 2013 e il 2014 sarebbero state trattate in barba alle leggi, all’interno della ditta di autodemolizione dei Pepe, «circa 2.300 tonnellate di rifiuti ferrosi». Perlopiù auto mandate allo scasso. E senza badare nemmeno ai sedili finiti nel trituratore.
La gran parte di quel materiale, poi, sarebbe stato ceduto come materia prima riciclata all’ex Siderpotenza per essere fusa all’interno dei suoi altoforni.
Secondo gli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia di Potenza, il traffico di rifiuti ferrosi prevedeva la falsificazione di bolle e certificati in entrata e in uscita. Per nascondere quanto avveniva realmente nello stabilimento, e continuare a fare affari con alcuni personaggi, di nazionalità rumena, che avrebbero conferito «metalli ad alto valore aggiunto» di dubbia provenienza.
Di fatto le indagini erano arrivate all’impianto di auto-demolizioni di via della Tecnica seguendo proprio i co-imputati rumeni, accusati di smerciare rame prelevato dai cavi di Enel e Ferrovie. Così si è scoperto che venivano venduti come «materiale bonificato» anche pezzi di ricambio che venivano commercializzati parallelamente, in nero. Quindi la differenza di peso veniva giustificata con «l’ingresso nello stabilimento di rifiuti senza alcuna tracciabilità».
Gli investigatori dell’ex Corpo forestale avevano stimato in «circa 3mila» i conferimenti abusivi accertati nei sei mesi presi in esame, grazie anche alle intercettazioni telefoniche e ai filmati delle telecamere nascoste piazzate nello stabilimento. Inoltre hanno evidenziato che «delle circa 500 vetture da rottamare e trovate nell’azienda», solo «29» erano risultate regolarmente trattate.
Per comprendere le motivazioni del collegio presieduto da Baglioni, ad ogni modo, bisognerà attendere qualche settimana. Intanto la notizia della condanna ha già destato particolare attenzione all’interno del Palazzo di giustizia potentino, e non solo, in vista della decisione, attesa per la prossima settimana, in un altro processo per traffico di rifiuti. Quello che vede imputati davanti agli stessi giudici Eni e la gestione dei reflui del Centro olio di Viggiano.
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