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Malagiustizia, le accuse all’ex capo degli ufficiali giudiziari in Corte d’appello. Il gip: «Distrutte centinaia di fatture e solleciti di pagamento negli archivi»
POTENZA – Le «rare fatture» di Poste italiane per le notifiche di atti di vario tipo effettuate per conto degli ufficiali giudiziari: «non corrispondevano alle caratteristiche previste dalla convenzione e non ci consentivano di effettuare le necessarie verifiche sia da un punto di vista contabile, sia circa la qualità del servizio».
Si è difeso così l’ex capo dell’Unep (ufficio notificazioni, esecuzioni e protesti) della Corte di appello di Potenza, Pasquale Guglielmo Di Gioia, agli arresti domiciliari da martedì con l’accusa di peculato (LEGGI LA NOTIZIA) per essersi intascato qualcosa come 70mila euro di competenze pagate dagli avvocati sui conti correnti istituzionali. Per quelle notifiche in concreto delegate alle Poste.
A verbalizzare le sue parole, a marzo, era stato l’attuale direttore dell’Unep, che lo aveva convocato per parlare dei solleciti ricevuti dopo il passaggio di consegne avvenuto l’anno prima.
In quell’occasione, infatti, Di Gioia, che stava per andare in pensione, gli aveva presentato un riepilogo generale della situazione contabile in perfetta parità, da cui non risultavano pagamenti «da effettuare». Cinque mesi più tardi però, a luglio del 2018, era arrivata una prima comunicazione delle Poste, in cui si chiedeva il pagamento di un debito 77mila euro per «numerose fatture (oltre 100)» tra il 2012 e il 2017, e si faceva riferimento a «precedenti solleciti», di cui non c’era traccia nell’archivio dell’ufficio.
«Le fatture relative alla convenzione – queste le spiegazioni fornite da Di Gioia – arrivavano a mezzo posta in cartaceo, in maniera del tutto non regolare e io non le tenevo in considerazione, perché non conformi».
L’ex dirigente dell’Unep della Corte d’appello di Potenza aveva dichiarato di non aver «provveduto a contestazioni formali scritte nei confronti di Poste», perché il suo interlocutore della società gli aveva riferito «che avrebbe provveduto tramite i tecnici a ovviare all’inconveniente». Inoltre aveva escluso di sapere, a distanza di anni: «dove reperire queste fatture, perché non vi era un’unità di personale addetta alla raccolta». Ma aveva aggiunto di averne rinvenuta, «casualmente», qualcuna, tra i documenti personali portati via dall’ufficio.
Perentorie le osservazioni a riguardo del gip Lucio Setola, che ha evidenziato anche la contraddizione del dirigente, che rispetto a quelle fatture non «conformi» non ha stranamente mai messo per iscritto le sue contestazioni.
«Di Gioia – scrive il giudice nell’ordinanza di arresti domiciliari eseguita martedì mattina – ha avuto sempre contezza dell’esistenza delle fatture e dei solleciti, ne aveva diretta disponibilità e li ha distrutti/soppressi, ovvero li ha opportunamente occultati (come la disponibilità di alcuni esemplari trattenuti e non versati agli atti dell’ufficio sembrerebbe indicare)».
In conclusione: «non può che ricavarsi che il Di Gioia – insiste Setola -, a tutti gli effetti, ha fatto “sparire” tali somme e la connessa documentazione delle Poste (fatture e solleciti); ha poi artatamente falsificato la “situazione contabile” consegnata (…); ha scientemente mentito (…) al momento del passaggio delle consegne».
«Solo quando era prossimo ad andare in quiescenza (probabilmente conscio del pericolo di venire scoperto, non potendo più pilotare l’Unep) – è scritto ancora nell’ordinanza – ha cercato di tacitare le Poste effettuando dei versamenti a copertura parziale delle somme fraudolentemente sottratte, tacendo ancora una volta quanto avveniva». Di qui il sequestro di beni e disponibilità finanziarie nella sua disponibilità per “soli” 30mila euro.
Oltre a Di Gioia martedì mattina è finito ai domiciliari anche un altro dipendente della Corte d’appello di Potenza, Claudio Giangrande, indagato a sua volta per peculato a causa delle marche da bollo, del valore di circa 8mila euro, che nascondeva a casa e in ufficio. Marche che per gli inquirenti avrebbe prelevato dalle pratiche che passavano sulla sua scrivania, e poi rinvenduto.
Giangrande è indiziato anche di favoreggiamento, per aver aiutato un collaboratore dell’avvocato Raffaele De Bonis (agli arresti domiciliari da metà ottobre per corruzione e rivelazione di segreto istruttorio) a rimuovere la telecamera nascosta piazzata dagli investigatori all’interno del suo studio, e abuso d’ufficio, per aver “scontato” al nipote di De Bonis, l’avvocato Luca Di Mase, mille euro in diritti di cancelleria per le iscrizioni a ruolo del «100%» delle cause di risarcimento per l’eccessiva durata dei processi avviate tra il 2018 e il 2019.
Entrambi, Di Gioia e Giangrande, nei prossimi giorni dovrebbero essere sentiti dai giudici che hanno sottoscritto le rispettive misure cautelari, Setola e Antonello Amodeo. A ieri però, dato il termine di 10 giorni previsto, la data degli interrogatori non risultava ancora fissata.
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