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Tra le carte dell'inchiesta Suggello colpiscono le parole di un commissario d'esame che dice: «Questo candidato non ha nessun santo, non ha alcuna speranza di essere assunto»

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LA speranza è la prima vittima di questa inchiesta. Al di là di quelle che saranno le risultanze, di quello che sarà smontato in aula, di quelli che risulteranno reati o meno. La speranza di chi si affida, mani e piedi, a un concorso pubblico. E non sono pochi: ogni volta per quattro posti si presentano orde di concorrenti, desiderosi solo di mettere alle spalle la precarietà che li attanaglia e garantirsi un punto fermo fra i flutti della vita. Concorsi pubblici: ogni volta ti dicono che ci sono sistemi e controsistemi per garantire la regolarità del loro svolgimento. E invece, sfogliando le pagine dell’ordinanza – ripetiamo: a prescindere da quello che poi ne sarà l’eventuale esito processuale – si viene colpiti dalla “banalità del male”, dalla farsa nel dietro-le-quinte che veniva inscenata per mandare avanti i raccomandati. E così la speranza muore.

Chi me lo fa fare – penserà qualunque giovane o meno giovane lucano (ma non solo lucano) – a studiare e dannarmi l’anima e i giorni per sperare in un posto nella sanità pubblica? Se non conosco nessuno, se non faccio parte di una lista (verde o di qualunque altro colore), è solo tempo sprecato. Regalato ai raccomandatori. Umiliato dai raccomandati. E viceversa. La frase che forse racchiude tutto è lo sfogo di Maria Benedetto, direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera. Dice: «Tutti i raccomandati hanno fatto schifo, guarda, è una cosa vomitevole. Ma dimmi tu come faccio io, come cazzo faccio» i vescovi, pure i vescovi. Stretta fra l’incudine della propria coscienza di professionista capace di distinguere chi vale da chi non vale e il martello di chi invece impone di premiare alcune persone (che, purtroppo per la dirigente, non valgono nulla), si sente evidentemente chiamata a un compito ingrato, colpevole di dover aprire l’uscio a chi non è pronto al ruolo che dovrà ricoprire e sbattere la porta in faccia a chi magari avrebbe rappresentare un plus per l’amministrazione.

Scrive il giudice delle indagini preliminari, Angela Rosa Nettis, in un passaggio che sembra quasi un editoriale: «La politica non più al servizio del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale». Non che questo aspetto salti fuori adesso: qualche giorno fa nel teatro greco di Siracusa è andato in scena un adattamento di “I Cavalieri” di Aristofane, scritto 2.242 anni fa. Già allora qualcuno aveva riprodotto in teatro i meccanismi del potere, quelli che trasformano un salsicciaio nel prediletto del Popolo attraverso abiezione morale, favori indebiti, corruzione dei costumi. Ma questa inchiesta aggiunge qualcosa in più. Fra le intercettazioni – quand’anche, lo ribadiamo a costo di apparire noiosi, il tribunale del Riesame faccia strame delle misure cautelari e l’inchiesta scoppi come una bolla di sapone – sembra di avvertire il ticchettio regolare di un meccanismo scorrevole, lubrificato a dovere. Sì, c’erano le rimostranze della Benedetto (che in un altro passaggio si sfoga dicendo «Io non posso, questi mi fanno venire l’infarto»). Ma erano il classico granello di sabbia che in questo caso non inceppa il meccanismo. Un meccanismo che si doveva accettare. Non parliamo di fattispecie giuridiche, in questo caso. Parliamo di quella che un tempo si chiamava “questione morale”, e che era stata posta al Paese dal partito che generò il Pd di cui il presidente Marcello Pittella fa parte e ha sostanzialmente guidato negli ultimi anni in Basilicata. Lo spiegava Enrico Berlinguer nel 1981, chiarendo che la questione morale non era solo l’elenco di casi di disonestà che ovunque e in ogni tempo si sono verificati. E’ «l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti». In questo caso, alla parola “partiti” si può sostituire “potenti”, ossia quelli che detengono il potere di anteporre all’interesse generale, quello della comunit‡ che le istituzioni rappresentano, l’interesse personale, dei privati, che spesso e volentieri non coincide. E cos’è l’interesse personale se non – come emerge a una lettura complessiva delle carte – questo intreccio di congegni per migliorare i voti, per far avere ai candidati “giusti” le tracce in anticipo, per allungare liste con nomi e cognomi evidenziati?

Così si ha l’impressione, immediata e plastica, di una terra in cui i migliori perdono e i peggiori, pur esecrati nelle segrete stanze, emergono. Ed ecco come muore la speranza. Muore nelle parole di un commissario d’esame che dice: «Questo candidato non ha nessun santo», non ha alcuna speranza di essere assunto. La speranza muore davanti a un trivio. Tre strade davanti. Una porta a uniformarsi, a cercare di ottenere quel segno di spunta verde anche sul proprio nome. La seconda ad andare via, nel tentativo di trovare una terra in cui si va avanti se ci si impegna e non se si è amici di amici. Infine, la terza, la più amara: restare qui. E morirci. Di sfiducia, di sconforto, di scoramento.

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