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La Cia spiega la nuova filiera
POTENZA – Una filiera della carne di cinghiale. In altre parole: un nuovo tipo di industria alimentare che, proprio ieri, ha avuto il suo battesimo. E che potrà servire anche a ridurre il sovrappopolamento di questo animale che affligge l’agricoltura lucana.
A farlo sapere Nicola Figliuolo, dirigente alla Cia – la Confederazione italiana degli agricoltori – della Basilicata. In pratica nasce un’azienda che compra dai cacciatori le carcasse dei cinghiali abbattuti – rispettando una serie di prescrizioni sanitarie dettate dalla legge – e le vende alle aziende che ne trasformano le carni in prodotti per la distribuzione. «Per la prima volta – spiega Figliuolo – una società privata fa accordi con i cacciatori: grazie ad alcuni opifici che si sono attrezzati a ricevere la selvaggina, per la prima volta la carne del cinghiale cacciato sarà sottoposta a visita sanitaria e commercializzata, dunque pienamente immessa nella catena alimentare. Finora non era possibile: non c’erano aziende che lo facessero. Tutto ciò che si faceva era il selecontrollo. Oggi è stato messo a punto questo sistema che incentiva i cacciatori a mantenere basso il numero». Fino a oggi i cacciatori, non avendo uno sbocco commerciale, abbattevano uno o due capi a testa, poi dovevano provvedere a portarlo via, scotennarlo, regalarne decine di chili ad amici e parenti non potendo venderlo né consumarlo tutto in proprio. Faticoso e dispendioso. Oggi potranno vendere il capo ucciso, pare con un guadagno di un euro a chilogrammo. La diffusione di questo ungulato in Basilicata ha raggiunto cifre preoccupanti. «Al di là dei numeri eccessivi che a volte si sentono – dice Figliuolo – la stima realistica è sui 60-70.000 capi. Peraltro, è una specie che si riproduce a ritmi esponenziali».
Perché ce ne sono tanti? Risponde Donato Distefano, direttore della Cia Basilicata: «C’è stato, negli anni scorsi, un ripopolamento senza controllo a fini venatori. E’ stato immesso sul territorio un quantitativo esagerato di capi. Nel corso del tempo, la popolazione è andata fuori controllo. Il cinghiale qui trova un habitat ideale per riprodursi. La macchia è adattissima. E poi oltre il 30 per cento del territorio è in aree parco, dove non si può cacciare». Fino a qualche tempo fa era impossibile pensare a una filiera del cinghiale. «La legge – spiega Figliuolo – individuava la figura del “cacciatore formato”, che aveva nozioni di base certo su sicurezza e armi ma anche sul trattamento delle carcasse, su come si eviscerano, come si trattano il diaframma e gli organi vitali, come inquadrare il capo ante mortem eccetera. Il “cacciatore formato” era insomma un problema: questa settimana, il 18 ottobre scorso, mettendo insieme gli assessorati regionali ad Agricoltura, Ambiente e Sanità e considerando tutti i corsi degli ultimi anni, è stato chiarito che molti cacciatori potessero definirsi formati».
Ce ne sarebbero 4 o 500 di questi cacciatori in Basilicata. Ora il capo abbattuto diventa “tracciato”: ognuno avrà una fascetta identificativa e registrata dall’Atc, l’Ambito territoriale di caccia. Il capo viene individuato, tutto è riportato su foglio consegnato al macello. Insomma, i cinghiali saranno cacciati, abbattuti, visitati e macellati in Basilicata, poi trasformati fuori. In attesa che anche qui nasca un’industria del settore.
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