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Stefanutti junior accusa i sodali del padre nel processo sui nuovi affari del clan: “Volevano morto il figlio del pentito” Cossidente
POTENZA – Volevano «eliminare» il figlio di Antonio Cossidente, boss pentito del vecchio clan “basilischi”. Vuoi perché aveva scelto di restare a Potenza e insidiava i traffici di cocaina del clan. Vuoi per vendetta contro quel padre da cui pure aveva preso le distanze, quando è diventato collaboratore di giustizia. Per aver organizzato l’agguato in cui ad aprile del 1997 morirono i coniugi Patrizia e Pinuccio Gianfredi.
Lo ha rivelato, ieri, un altro figlio illustre, Natale Stefanutti, nel processo “Lucania felix” sui nuovi affari dello storico clan di Potenza guidato dal padre, Dorino, e Renato Martorano.
Stefanutti junior è comparso di spalle, in collegamento da un sito riservato, negli schermi dell’aula Pagano, al secondo piano del Palazzo di giustizia. In quattro ore, rispondendo alle domande dei pm Antimafia, Sarah Masecchia e Marco Marano, ha iniziato a raccontare i motivi della sua decisione di collaborare con la giustizia e quanto a sua conoscenza sulle attività criminali del padre e dei suoi «amici». Inclusi i referenti calabresi del gruppo potentino, che a suo dire sarebbe stato emanazione di una delle cosche di ‘ndrangheta di maggiore successo, negli ultimi anni: quella guidata dal boss di Cutro, Nicolino “mano di gomma” Grande Aracri. Tanto che in un’occasione, per rendere omaggio al padre, dalla Calabria gli sarebbe stato recapitato persino un cinghiale «vivo». Un dono dal chiaro significato simbolico che il boss potentino avrebbe dovuto rimandare indietro, chiedendo agli “amici” di macellarlo in sua vece, non avendo come farlo altrimenti.
Stefanutti junior ha spiegato di aver iniziato a parlare con gli agenti della sezione anti-crimine della squadra mobile di Potenza dopo l’omicidio, nel 2013, di Donato Abruzzese, per cui il padre sta scontando una condanna a 18 anni di carcere. Spaventato dall’idea di essere implicato a sua volta negli affari criminali del padre e di quanti, come Donato Lorusso, avevano preso le redini del clan in sua assenza.
Poi ha sostanzialmente confermato quanto dichiarato di fronte agli investigatori. Anche riguardo a presunti appartenenti e fiancheggiatori del clan che nel tempo hanno visto già archiviate le ipotesi di reato formulate nei loro confronti.
L’esame del superteste dei pm proseguirà il 29 aprile. Poi verrà il turno dei difensori degli imputati.
L’inchiesta “Lucania felix” ha preso di mira, in particolare, una presunta associazione mafiosa e un’ulteriore associazione a delinquere specializzata nel narcotraffico, che si sarebbero aggregate attorno ai due boss potentini, Martorano e Stefanutti.
Nel mirino degli agenti della sezione anticrimine della Squadra mobile di Potenza sono finite anche una serie di tentate estorsioni aggravate dal metodo mafioso, come quella a un imprenditore del salernitano che avrebbe avuto un debito da 900mila euro col titolare di un bar poco lontano dal Palazzo di giustizia di Potenza. Estorsione condotta da Martorano in persona, appena tornato in libertà dopo quasi 11 anni di carcere duro per estorsione mafiosa, che avrebbe fatto fuoco con una pistola contro la porta d’ingresso dell’abitazione dell’imprenditore, rivendicando il gesto poco dopo, al telefono.
Nelle motivazioni delle prime condanne emesse dal gup Teresa Reggio, per alcuni imputati che hanno optato per il rito abbreviato, si legge che «la forza del clan, sotto il profilo della capacità di intimidazione», emergerebbe «anche dai rapporti dello stesso con altre realtà criminali certamente connotate da mafiosità». Proprio i rapporti riferiti da Natale Stefanutti e altri collaboratori di giustizia lucani e non.
Il gup si era detto convinto anche dell’esistenza di «un’associazione volta al narcotraffico, quale modalità operativa del clan, costituita da soggetti intranei al sodalizio mafioso, nel cui interesse e sotto il cui costante controllo il narcotraffico viene gestito, nonché da soggetti estranei al sodalizio, ciascuno dei quali avente uno specifico ruolo funzionale al perseguimento di fini criminali comuni».
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