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Nicola Lovisco

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POTENZA – Ai familiari, uscendo di casa con un borsone, avrebbe annunciato l’intenzione di consegnarsi in carcere, dove lo aspetta una condanna a 30 anni per la morte di Marco Ugo Cassotta, trucidato nel 2007 a Melfi. Subito dopo, però, ha fatto perdere le sue tracce. È considerato un uomo in fuga il 51enne Nicola Lovisco, melfitano ma da tempo residente in provincia di Pisa.

La “scomparsa” risale a due settimane fa quando la Corte di cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’appello di Salerno nei confronti suoi e del 52enne Angelo Di Muro, considerato il boss dell’omonimo clan melfitano. Quest’ultimo, al momento della lettura del verdetto, si trovava già in carcere per finire di espiare una condanna per mafia.

Lovisco, invece, ha già finito di scontare 7 anni di reclusione per la stessa accusa, per questo era stato raggiunto dalla notizia a casa. Il sospetto delle forze dell’ordine, insomma, è che si sia determinato a darsi alla macchia, sebbene sia impossibile da escludere anche l’ipotesi di un gesto inconsulto, data la drammatica prospettiva di una detenzione tanto lunga. Per questo le ricerche sono state estese su tutto il territorio nazionale.

A puntare il dito contro il 51enne camionista, detto “zarrone”, era stato il marito di una cugina, Alessandro D’Amato, che nel 2010 ha iniziato a collaborare con la giustizia. Ai pm dell’Antimafia lucana il camionista D’Amato aveva confessato di essere stato l’esecutore materiale di 5 omicidi, incluso quello del suo ex «compare» Marco Ugo Cassotta, e quello dei coniugi Gianfredi, a Potenza nel 1997. Oltre che il mandante dell’esecuzione di un altro dei fratelli Cassotta, Bruno, l’ultimo caduto nella faida tra i clan del Vulture nell’autunno del 2008.

D’Amato aveva raccontato di essere stato per anni il braccio armato del clan Cassotta, fino a quando il boss, Marco Ugo, non gli ha negato un prestito di 15mila euro per l’acquisto di una casa in Toscana, dove si era appena trasferito con la famiglia. In occasione di un incontro col cugino della moglie, quindi, D’Amato gli avrebbe rappresentato il suo disappunto. Di qui l’invito al cospetto del boss Di Muro, in un ristorante di Melfi, e l’offerta di comprarsi il passaggio con “loro” uccidendo il suo vecchio «compare».

Nei tabulati telefonici della mattina dell’omicidio, il 15 luglio del 2007, gli inquirenti avrebbero riscontrato dei contatti tra D’Amato e Lovisco, e tra Lovisco e Di Muro.

Pertanto a dicembre del 2010 sono scattati gli arresti ed è iniziata una lunga vicenda giudiziaria che ha visto i due, Lovisco e Di Muro, condannati in primo grado a marzo del 2012, e poi in Appello a marzo del 2015. Ad aprile del 2016, però, è arrivato il primo annullamento della condanna in Cassazione. Ne è seguito un secondo processo in Appello, a Salerno, e un ulteriore annullamento con rinvio a Salerno per un terzo processo. Ed è proprio su quest’ultimo che la Corte si è espressa all’inizio del mese confermando in via definitiva le condanne.

Secondo il racconto di D’Amato sarebbe stato proprio Lovisco, che era in compagnia di Di Muro, a dargli la calibro 38 utilizzata per uccidere Cassotta, attirato in una trappola in un casolare nella periferia di Melfi. E sarebbero stati sempre loro, Lovisco e Di Muro, ad andare in un secondo momento in quel casolare per dar fuoco al corpo del boss rivale secondo la stessa ritualità utilizzata per un altro dei fratelli Cassotta, Ofelio, la prima vittima della faida del Vulture, che venne ritrovato semicarbonizzato nella discarica di Rapolla nel lontano 1991.

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Fabio Grandinetti

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