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POTENZA – Perché una melodia sia perfetta, è necessario che tutti gli strumenti siano ben accordati tra loro. E Giuseppe Romaniello, che la passione per la musica la coltiva da sempre, questo lo sa bene. E la voglia di “suonare insieme” l’ha trasferita anche nell’ambito lavorativo. Lo si capisce quando parla di comunità, di collaborazioni, di relazioni.
Lo scorso 30 settembre Romaniello ha chiuso un altro capitolo della sua vita: tre anni come direttore generale dell’Unibas. E oggi inizia una nuova sfida al Comune di Potenza, dove arriva con un bagaglio di esperienze che certamente potranno essere d’aiuto.


«La sfida è l’attrazione del sapere», dice pensando a come potrebbe cambiare il capoluogo. E le due esperienze, quella all’Unibas e quella che inizia, sembrano fondersi in quella che Romaniello può annoverare come una importante vittoria: il nuovo corso di laurea in Medicina.
«E’ l’esempio di come è possibile essere impattanti in un contesto. Per la prima volta dopo 10 anni, il ministro dell’Istruzione destina una parte delle risorse alla Basilicata: 6 milioni di euro per un progetto strategico. Alla stessa maniera il ministero della Salute destina 9 milioni di euro per un Polo sanitario in Basilicata, una delle risposte più concrete alla battaglia contro il Covid. Sotto il piano dell’Università, se c’è un percorso strategico sostenuto dagli attori istituzionali, si genera un impatto di accelerazione della spesa pubblica e di risorse messe a disposizione. Una opportunità attorno a cui però bisogna costruire: entro tre anni l’Università dovrà far nascere il Dipartimento medico-sanitario».


Nella città capoluogo l’Università è sempre stata vissuta come un corpo estraneo: è cambiato qualcosa in questi anni?
«Tutte le Accademie, per l’autonomia di cui godono, sono una sorta di emiciclo. Che ci sia una separatezza è una cosa normale se non necessaria. Ma io non sono certo che nei fatti ci sia. L’Unibas per un quinto è finanziata dalla Regione. A finanziamenti corrispondono degli accordi operativi. Questo significa costruire un pezzo del nostro operare in collaborazione con gli enti del territorio. Poi c’è l’impatto sui due capoluoghi: c’è un ritorno in termini di indotto sul territorio, gli studenti vengono a vivere in città, passano qui le loro giornate, ci sono i docenti che vivono qui. Insomma, la città investe uno ma guadagna 5. E poi c’è il tema di come l’Università contribuisca a creare percorsi di sviluppo non solo nell’immediata spesa. E qui il discorso è più complesso, perché attiene alla capacità di tutti gli attori istituzionali, compresa l’Università, di costruire. Faccio un esempio. Secondo me in questo discorso rientra il percorso che è stato fatto per l’istituzione del corso di laurea in Medicina».


Quanti studenti ha l’Unibas?
«Sono iscritti quasi 7.000 studenti. E sotto i 10.000 parliamo di un piccolo Ateneo. Però c’è un dato che vorrei evidenziare. Alla domanda posta ai nostri studenti da Almalaurea sull’efficacia della laurea conseguita, il 77% risponde che se non l’avesse avuta non avrebbe trovato lavoro. In Italia la media è del 66%. Significa che chi viene qui considera la laurea cruciale per il suo inserimento. Poi è chiaro che ci sono settori più attrattivi: penso a Economia, Scienze della formazione primaria: abbiamo 160 posti e 600 domande ogni anno, tanto è vero che abbiamo aperto il corso di Scienze dell’educazione, che è un corso vicino ma non è abilitante. E ancora c’è Architettura a Matera, che ha un grande pontenziale. E poi è molto forte il settore tecnico scientifico. Quindi l’impatto dell’Università deve essere considerato nel suo complesso».


Quel 77% però, evidentemente, poi va via. E qui in regione sentiamo spesso dire che mancano le professionalità, che ci sono aziende in difficoltà nel trovare determinate figure. E sotto accusa, inevitabilmente, finisce la formazione, l’Università…
«Quanto noi riusciamo a trattenere quel 77% che considera cruciale l’università? E’ questo un tema che ci si dovrebbe porre tutti, comprese le aziende. E mi permetto di dire che quello dell’assenza delle competenze è un problema non esattamente vero. Se io ho necessità di avere dei lavoratori fortemente specializzati, ho una serie di strumenti per riuscire a fare questi percorsi. Per cui a volte la questione delle competenze mi sembra più un alibi che altro. La questione è più il salario che tu offri. L’operaio specializzato lo devi pagare, altrimenti quello va via. Noi abbiamo un sistema competitivo che fa però del costo del lavoro una leva cruciale. Se io ho necessità di comprimere i costi del lavoro, è possibile che perda le persone più brave che, non incentivate, vanno via. Faccio l’esempio del corso di informatica: quelli vanno fortissimo, ma i ragazzi poi scelgono di andare non solo dove vengono pagati meglio ma anche dove sanno di poter sviluppare nuovi circuiti del sapere. Impresa e università insieme dovrebbero creare un ecosistema dell’innovazione, in cui ci siano relazioni in grado di fare crescere. C’è tutto questo qui? E’ un tema su cui ci si dovrebbe interrogare».


Questo bagaglio di competenze e di sapere lei oggi lo trasferisce al Comune di Potenza. Secondo lei qual è il ruolo di un capoluogo che si è sempre presentato come “città dei servizi”?
«Tutti dicono “città dei servizi”, ma in realtà tutte lo sono. C’è una definizione angolosassone che mi piaceva molto “transition town” ovvero città che sa declinare la transizione, sia essa economica, sociale, lavorativa di vocazione. Io mi immagino un potenziale nella capacità di una comunità di praticare la transizione. Però bisogna essere radicali, radicalmente in transizione. Ci deve essere la consapevolezza che devo approdare a un’altra cosa».


A cosa dovrebbe approdare una città come Potenza?
«Noi sappiamo che dobbiamo creare un mondo più smart, inclusivo. Una comunità che si ripensa si rende in grado di sopportare gli shock della storia. Sono un economista e non uno storico, ma la nostra città già nel 1860 ha saputo immaginarsi come doveva essere, era lì sotto i bombardamenti, nel dopoguerra, dopo il terremoto del 1980 quando decide di far leva sul sapere (l’Università) per rinascere dopo un evento così catastrofico. Oggi abbiamo bisogno di un’altra transizione».


E crede che ci siano attualmente le condizioni?
«In questa comunità sì. Ogni comunità ha i suoi elementi per mettere in campo una reazione, è un istinto umano restare e permanere nella storia. Il tema è se abbiamo la capacità di leggere l’attuale contesto, che è di grande accelerazione verde, digitale e inclusivo. Non dobbiamo più fare le file agli uffici pubblici, avere la rete in tutte le case, muoverci con l’energia elettrica. Avere piste ciclabili. E sono necessarie le relazioni. In passato era la piazza, oggi ho bisogno di altri luoghi. Ci saranno tante donne che lavorano, serviranno servizi. In questo ci dobbiamo ripensare. Il problema politico è di mettere in campo energie in questo senso. Io riconosco a Matera (ho fatto tutto il percorso del 2019, ero lì dal 1 gennaio) questa capacità. Lì ho percepito l’enorme energia di questa comunità che si era data un obiettivo incredibile. Poi possiamo discutere sul come, ma quello è un altro discorso. Quello che voglio dire è che tutti quelli che si sono avvicinati a quella esperienza hanno avuto forte la percezione di una concentrazione di energie pazzesche. Le città sono concentrazioni di comunità. Ed è su questo tema che si costruisce il resto. Tornando a Matera, che certo ha un importante patrimonio storico a sostenere tutto, ma il progetto che ha portato al 2019 è stato quel concetto di comunità, che si confronta, che discute e cresce. “Siamo la Venezia del sud”: e su quello costruisci».


Su quale obiettivo, per esempio, si potrebbe concentrare Potenza?
«Transizione verde, digitale, inclusione. Essere profondamente ecologici e innovativi e in grado di tenere dentro tutti in questo processo. E poi dobbiamo essere in grado di creare idee e sapere, un ecosistema dell’innovazione dove i ragazzi possano sperimentare il primo miglio dell’ingresso al lavoro. Un luogo fisico dove i ragazzi che si laureano, quelli che ora vanno via alla ricerca di migliori opportunità, devono poter entrare in un sistema di innovazione. Noi non possiamo trattenere le persone, dobbiamo però dare loro la possibilità di scegliere se andar via o rimanere. E io mi immagino un potenziale nella capacità di una comunità di praticare la transizione. Però bisogna essere radicali, radicalmente in transizione. Tornando alla mia esperienza all’Unibas, per esempio, abbiamo proposto il Piano strategico e ci siamo interrogati: qual è il contributo che io Università posso dare all’Agenda 2023 sul tema dello sviluppo sostenibile? In che maniera noi contribuiamo? Abbiamo accettato questa sfida e fatto le scelte conseguenti. Per esempio scegliendo prodotti a chilometro zero, un protocollo per togliere la plastica dalla mensa, la “Green station”: chi va al Campus di Macchia Romana ha una carta con cui si può ricaricare gratuitamente la bici o la macchina elettrica. E’ questa la sfida che abbiamo lanciato: trasformare le idee in fatti concreti, facendo del Campus un’esperienza eversiva, in cui tu vedi come sarà il futuro. E la pandemia ci ha fatto accelerare con la digitalizzazione».
Un percorso forse più difficile fuori dall’Università, ma Romaniello si definisce un ottimista: «anche quando sono arrivato all’Unibas mi dicevano che sarebbe stato difficile, c’era una contrazione delle risorse, il personale da rimotivare, una serie di appuntamenti che ci aspettavano anche molto importanti. Ma posso dire che, con la collaborazione di tutti gli attori, si sono aperte nuove vie».

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