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POTENZA – Eni dovrà risarcire alla Regione Basilicata una trentina di milioni di euro di royalty non incassate dopo lo stop alle estrazioni di petrolio e gas nel 2016. Anche se a provocarlo sono state le contestazioni giudiziarie sulla gestione dei reflui di produzione secondo le modalità autorizzate dalla stessa Regione
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E’ quanto si legge attraverso le 350 pagine delle motivazioni, appena depositate, della sentenza per cui a marzo il Tribunale di Potenza ha condannato, in primo grado, 6 ex dirigenti locali della compagnia petrolifera per traffico di rifiuti, e la stessa società al pagamento di una sanzione amministrativa da 700mila euro ad Eni spa, e la confisca dai suoi conti di 44,2 milioni di euro, quale provento del reato contestato ai dipendenti.
L’ulteriore esborso milionario per la compagnia è stato disposto dal collegio presieduto da Rosario Baglioni approfondendo il capitolo sulle statuizioni civili della sentenza.
Al loro interno, come anticipato nel dispositivo letto in aula a marzo, compaiono oltre un centinaio di cittadini residenti perlopiù nell’area attorno al depuratore di Tecnoparco Valbasento spa, a Pisticci Scalo. Più il Ministero dell’Ambiente, diverse associazioni ambientaliste, e i comuni dell’area delle estrazioni.
Ma la fetta più grande della torta è senza dubbio quella riconosciuta alla Regione. Anche se per la liquidazione esatta degli importi bisognerà attendere l’esito di un giudizio apposito, da tenersi in «separata sede».
Ai cittadini, infatti, è stato disposto un risarcimento per il danno esistenziale provocato dai cattivi odori respirati per anni a causa delle sostanze smaltite illegalmente nel depuratore, e il deprezzamento delle loro proprietà. Mentre il Ministero e i comuni dovrebbero vedersi riconosciuti un generico «danno ambientale» e nient’altro che il semplice «danno d’immagine» provocato dal clamore mediatico dell’inchiesta. Stesso discorso per le associazioni ambientalisti, che avrebbero visto «minata» la loro finalità istituzionale «deputata alla tutela del diritto a un ambiente salubre». Tutt’altra musica, invece, per la Regione Basilicata, che pure condivide gli incassi delle royalty per il petrolio e il gas estratto con i comuni dove insistono i pozzi e tutto il resto, ma sulla questione risarcimenti pare aver fatto da apripista. Puntando forte sui mancati introiti provocati dallo stop della produzione in seguito al sequestro giudiziario di quegli impianti dell’Eni, dove, secondo l’accusa, i reflui delle estrazioni sarebbero stati trattati illegalmente. Una strategia che adesso potrebbe essere replicata dalle amministrazioni comunali facendo schizzare ulteriormente la “bolletta” per la compagnia petrolifera di bandiera.
Per capire la dimensione del problema per le tasche del cane a sei zampe occorre chiamare in soccorso le cifre dell’anno precedente al 2016, quando l’attività del Centro olio di Viggiano resto ferma per 5 mesi prima che fossero realizzate le modifiche impiantistiche necessarie per andare incontro ai rilievi dei pm titolari dell’inchiesta, Laura Triassi e Francesco Basentini (entrambi attualmente in servizio in altre sedi).
Basti pensare che a parità di quantitativi estratti rispetto al 2015, al netto di un deprezzamento del 16,59% pari al calo del prezzo medio del barile di petrolio registrato sul mercato, per la produzione 2016 solo nelle casse della Regione sarebbero dovuti entrare poco meno di 73 milioni di euro. In luogo degli 87milioni e dell’anno precedente.
Quando sono stati fatti i calcoli con i quantitativi realmente estratti nel 2016, però, il conto è sceso a 43. Di qui l’auspicio di vedersi risarciti quei 30 milioni di differenza che in un bilancio come quello di via Verrastro, che ripulito dalle partite di giro vale sui 300milioni di euro, pesano non poco. Auspicio a cui ora vanno incontro le parole del Tribunale, destinate a generare un’aspettativa importante anche per l’esito di un altro processo.
Quello per la perdita di greggio scoperta nel 2017 dai serbatoi del Centro olio dell’Eni di Viggiano che ha portato allo stop delle estrazioni per altri 3 mesi. D’altronde i giudici sono stati molto chiari.
«Quanto alla Regione Basilicata – scrive l’estensore della sentenza, Marianna Zampoli -, va alla stessa riconosciuto il danno patrimoniale derivante dalle attività poste in essere ai fini dell’adozione di misure di contenimento a tutela dell’ambiente e dalla mancata acquisizione delle royalties, per l’anno 2016 (anno in cui interveniva il sequestro dell’impianto), nonché il danno non patrimoniale (rectius, all’immagine) arrecato al prestigio dell’ente».
Il tempo di esaurire i restanti gradi di giudizio, insomma, che su via Verrastro rischiano di piovere decine di milioni di euro. Sempre che le condanne reggano fino in fondo. Un tesoretto che quasi certamente toccherà al successore del governatore Vito Bardi amministrare al meglio, nell’eventualità il generale non riesca a ottenere il paventato secondo mandato.
Nelle motivazioni della sentenza appena depositata si sottolinea che Eni non poteva non sapere che fosse illegale mischiare rifiuti di natura diversa prodotti dalle lavorazioni di petrolio, gas e zolfo. Cosa che invece avveniva fatto all’interno del Centro olio di Viggiano. Non poteva non saperlo anche se era consentito dalle autorizzazioni della Regione Basilicata. Per questo sono stati condannati a 2 anni di reclusione (con l’esecuzione sospesa) Ruggero Gheller, Nicola Allegro e Luca Bagatti, e in 1 anno e 4 mesi per Enrico Trovato, Roberta Angelini e Vincenzo Lisandrelli.
I giudici hanno spiegato anche la condanna a 18 mesi di reclusione, poi, l’ex capo dell’ufficio compatibilità ambientale della Regione Basilicata, Salvatore Lambiase, per un’ipotesi di abuso d’ufficio legata alla revoca di una diffida alla compagnia petrolifera di Bandiera per le emissioni incontrollate dal Centro olio di Viggiano. Revoca illegittima, secondo i magistrati, che testimonierebbe «un comportamento consapevolmente accondiscendente nei confronti dell’azienda petrolifera».
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