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La sede della Regione Basilicata

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IL lockdown , una parola inglese inquietante, ansiogena, significa isolamento, il modo più appropriato per tradurlo nella nostra lingua è “blindare”, “bloccare”. Con questi significati, non è una forzatura, ma al massimo una provocazione politica, dire che in Basilicata lo abbiamo avuto da lungo tempo: riguarda una epidemia che non attiene a un fattore influenzale di natura sanitaria, ma pur sempre a un virus, forse molto più grave, con quale siamo costretti a convivere da sempre che si chiama status quo che appunto sul piano sociale implica isolamento culturale prima di quello geografico, immobilismo politico ed economico, declino demografico ,ossia tutti quei fattori che documentano un mondo in sfacelo.

La differenza tra la nostra pandemia e quella dovuta al corona virus è che la seconda l’abbiamo importata dalla Cina, la nostra l’ha causata il sistema di potere regionale. Altra differenza consiste nel fatto che la nostra è una epidemia strutturale, l’altra è di natura contingente, passerà nel giro di qualche anno, in attesa della prossima.

La Basilicata si sta da lungo tempo comportando come la rana cinese descrittaci da Riccardo Illy, ossia sta morendo a fuoco lento nella pentola, alimentata dalla politica, senza rendersene conto, senza cioè avere consapevolezza del rischio che il cronico immobilismo comporta.

I politici–virologi lucani ci impongono di fatto di stare quieti, di non rompere le scatole, anche se danno luogo a migliaia di contagiati (gli emigrati , i disoccupati parcheggiati da anni, ecc.).

La Basilicata subisce tanti virus che mutano nel tempo , mantenendo comunque la loro caratteristica di fondo che consiste nell’impedire qualsiasi cambiamento. Nulla deve cambiare: la nascita dell’ente regione e le altre opportunità economico-territoriali che pure copiosamente si sono presentate, quali la presenza della grande industria degli anni ’90 del secolo scorso o gli aiuti della Ue sono stati rigorosamente ricondotti nella malsana stagnazione politica ed economica.

Se esaminiamo altre vicende altrettanto molto significative che hanno riguardato la regione in passato troviamo puntuali conferma di ciò che stiamo dicendo.

I protocolli, per restare nel lessico sanitario, hanno riguardato situazioni nella loro fase emergenziale, gestendole ovviamente in modo approssimativo, non essendo assolutamente preparati all’evento poi verificatosi (come si vede le similitudini col covid-19 sono molteplici).

Con l’alluvione del 1973, per fare un esempio, l’ennesima, destinata a ripetersi periodicamente , sia pure in modo meno grave ,fino ai giorni nostri, le tematica della tutela del suolo si sono riproposte in tutta la loro drammaticità, senza che si sia messo in campo una organica politica di manutenzione e di riassetto del territorio, lasciando al sistema di potere la solita, lucrosa gestione dei fondi pubblici straordinari stanziati. A nulla è valso, nel 1972, il richiamo di Aldo Musacchio, incaricato di redigere il piano territoriale regionale, di ricordare in un documento preliminare che la Basilicata si trovava “davanti a problemi estremi di vita o di morte”.

Siamo dopo circa 50 anni in una situazione ancora più grave, eppure i notabili regionali continuano a mistificare la realtà, raccontando meraviglie incredibili (modello lucano, ecc.).

Mai, dico mai, il regime politico-burocratico si è posto il problema di una vera programmazione delle risorse disponibili: mai un piano del lavoro, nonostante l’approvazione oltre 20 anni fa della l.r. n. 29 e le molteplici proposte in tal senso dell’Agenzia per l’impiego e dei sindacati, la questione urbana colpevolmente irrisolta è servita per difendere il mantra di Potenza città-regione che di fatto ha impedito la creazione di un assetto urbano policentrico, in coincidenza con le vocazioni del territorio, considerate incredibilmente border line (rispetto a chi e a che cosa?).

L’ente regione ha ignorato pervicacemente le proposte di programmazione che pure venivano prospettate dalla Svimez, dal Crpe, dall’Ibres, dal politecnico di Matera e così via. Ha sempre considerato “pericolosi” tali suggerimenti, perché forieri di sconvolgimenti dell’equilibrio politico esistente.

Dal primo presidente della regione, Vincenzo Verrastro, a seguire, si sono sistematicamente bruciati anni di studio e di ricerca degli anni ’60 che Cafiero, direttore della Svimez, in una sua pubblicazione ebbe modo di far notare che ponevano la Basilicata in una condizione di vantaggio, sul piano della programmazione, rispetto alle altre regioni meridionali.

In questo scenario di luci esterne all’ ente regione e di ombre prodotte dai notabili ben asserragliati nella caverna di Platone in via Anzio di Potenza, era ovvia la rinuncia all’incarico sulla pianificazione territoriale del citato Musacchio, appena si rese conto che l’ente regione voleva un libro da mettere in bacheca e non uno strumento a cui rifarsi per razionali scelte economiche e territoriali.

La sostanza è che abbiamo un regime del tutto incapace di rimuovere i mali della regione che sono in primo luogo culturali, perché sono paradossalmente generati proprio dalla classe dominante in questione.

Il dato incontrovertibile è che il regime ha consenso, pur in colpevole assenza di politiche rivolte al bene comune e a beneficio del mitico popolo.

Questa drammatica contraddizione, che mina alla base la democrazia, è stata finora possibile grazie anche alla complicità delle istituzioni che dovrebbero rendere forte gli anticorpi istituzionali.

È di tutta evidenza che il consenso è comprato, nei grandi numeri, col denaro pubblico, producendo tanto grasso corruttivo che richiederebbe chirurghi bravi e coraggiosi per tagliare alla radice questa zavorra sociale.

In Basilicata, purtroppo, in molti consessi le regole di un normale funzionamento democratico sono saltate, aggirate , colpevolmente tollerate. Vale per la politica come per la magistratura, come per la società di mezzo relativa all’associazionismo, tutti luoghi, dove prevalgono in non pochi casi gli interessi personali dei rappresentanti più che quelli dei propri rappresentati, disinteressandosi della larga platea di coloro che sono fuori da questa ragnatela relazionale, come i giovani, per dirne una. La responsabilità oggettiva, per spiegare meglio il clima in cui viviamo, non è stata in alcun modo tenuta in considerazione nella vicenda di rimborsopoli, dove il presidente della giunta, Vito De Filippo, in un fervore giustizialista, si è chiamato fuori, sciogliendo il Consiglio regionale, una decisione gravissima, non seguita dalle altre regioni, in cui rimborsopoli ha imperversato, facendo addirittura maggiore carriera politica, entrando di lì a poco nel governo nazionale.

Non è un mistero che spesso le questioni più spinose sono state e sono tuttora appianate, edulcorate, tranne magari per i più deboli, politicamente parlando. L’obiettivo è far rimanere tutto com’è: penso alla commissione insediata dall’allora ministro dei lavori pubblici, Lauricella, in merito allo scandalo urbanistico di Potenza, sollevato dall’onorevole Elvio Salvatore e da Leonardo Sacco, direttore della rivista “Basilicata”, penso al lavoro commissionato a Giovanni Astengo, in ordine al trasferimento degli abitati minacciati da frane, nell’ambito dei tanti programmi non portati a compimento, in materia di dissesto idrogeologico, penso più in generale ai tanti accordi stipulati dalla regione che ponevano al centro lo sviluppo (vedi addendum petrolio, ricostruzione post terremoto, gli aiuti europei ), regolarmente disattesi e mai preceduti o approdati a un vero piano e conseguente strategia d’intervento.

Oggi, il governatore Bardi sta ricalcando tali consuetudini. Sta raccattando alla rinfusa una miriade di progetti locali e comprensoriali, senza un disegno, senza una strategia.

Caro presidente, quando sarà il momento per tirare fuori qualche idea nuova? con l’incubo e l’aggravante del covid-19, se non ora, quando?

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