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Se un termine si impone sulla scena, vuoi perché ci sono delle comunità che ne discutono, vuoi perché arriva dall’estero e ce ne innamoriamo, c’è sempre una prima fase in cui se ne parla senza consapevolezza.  Lo scarto, allora, sta nella capacità, sia del contesto sia dei politici, di passare da “affronto il tema perché lo suggerisce un consigliere” a “padroneggio
 il tema  e sono in grado
 di interpretarlo”

 

Lo dice sempre, Ernesto Belisario, la trasparenza è una questione di metodo. E alla trasparenza è legato un percorso che mette insieme governo, partecipazione,  sviluppo, controllo. Insomma, cittadinanza. 

Di ritorno da Londra, dove era nella delegazione italiana all’Open Governement Partnership (il summit mondiale su governi e partecipazione), capita di incrociarlo a Potenza, mentre la città è immersa nella campagna elettorale. In questi giorni, con il voto per le regionali dietro l’angolo, un po’ tutti stanno parlando di opendata e opengov. Ma quanta consapevolezza c’è davvero su questi temi?

«Potremmo dire che è quasi fisiologico: quando un termine si impone sulla scena, vuoi perché ci sono delle comunità che ne discutono, vuoi perché arriva dall’estero e ce ne innamoriamo, c’è sempre una prima fase in cui se ne parla senza consapevolezza.  Lo scarto, allora, sta nella capacità, sia del contesto sia dei politici, di passare da “affronto il tema perché lo suggerisce un consigliere” a “padroneggio il tema  e sono in grado di interpretarlo”.»

Quanto su questi temi la società è più avanti della politica?

«Ci sono pezzi di cittadinanza più avanzate, comunità che ne parlano da tempo. Ma in questi contesti forse abbiamo fatto l’errore di essere autoreferenziali, ci siamo specializzati senza un necessario sforzo di alfabetizzazione diretto non soltanto alla classe dirigente e alle pubbliche amministrazioni. Non siamo riusciti a smuovere la cittadinanza, che, invece, se ne capisce il valore, poi i dati comincia a pretenderli sul serio.» 

Ne parlano tutti, il tema torna nei programmi elettorali, se ne discute negli incontri tra candidati. Ma com’è sta davvero la Basilicata degli opendata?

«A Matera è stata avviata un’iniziativa. Altre amministrazioni ne parlano. In generale non è produttivo limitarsi a pubblicare alcuni dataset. Bisogna invece sviluppare due strategie: da un lato ripensare la trasparenza in modo nuovo, permettendo il controllo; dall’altro cercare sviluppo locale. Perché quello che non abbiamo capito è che possiamo utilizzare i dati per creare nuovi posi di lavoro attraverso l’economia dell’immateriale.»

Vista così, il dato è un po’ come un’infrastruttura…

«Esattamente: così come vogliamo sapere quando sarà pronta un’autostrada per poter progettare l’economia di quell’area, così ci serve sapere quando avremo a disposizione i dati e che risorse avremo per lavorarci. Almeno se vogliamo costruire sviluppo su quella che oggi è a tutti gli effetti una materia prima.»

Qual è il settore dove serve più che altrove compiere questo passaggio?

«Tutti i percorsi che guardano al lavoro o all’impresa possono avere grandi benefici dall’utilizzo consapevole dei dati aperti. Vale anche per il turismo, e vale ancora di più in una regione come la Basilicata che punta sulla vocazione turistica e che non può pensare di essere “portalocentrica”. Non è sui siti istituzionali che il cittadino sceglie mete o cerca informazioni di viaggio. Nell’era delle app, cifre, nozioni, foto, contenuti artistici, tutto deve essere libero e utilizzabile dai cittadini.» 

Dicono: per farne poi cosa?

«Durante una conferenza mi è capitato di ascoltare un intervento del sindaco di Toronto: “Non chiedetevi quello che i cittadini possono fare con i dati, voi  pubblicateli. Poi penseranno sicuramente a una forma di utilizzo che vi stupirà”. Ecco, proprio non possiamo imbrigliare la creatività dei cittadini.»

Da Londra a casa con la speranza che le cose si possano fare? 

«A Londra, con 62 Paesi partecipanti, cittadini, governi, ho avuto la rappresentazione di una previsione fatta lo scorso anno da Hillary Clinton. “Nei prossimi dieci anni – aveva detto – la differenza non sarà tra Stati del Nord e del Sud, ma la distanza vera sarà tra Paesi open e paesi closed. E sia chiaro, non stiamo parlando solo di Paesi come gli USA, al summit c’erano lo Zambia, la Tanzania.» 

Tutto sommato l’orizzonte sembra positivo.

«In un anno e mezzo molti Paesi sono andati avanti, con un grande lavoro sugli open data. Ora il punto è superare la fase dell’approfondimento: un po’ come nella vita di tutti i giorni, bisogna andare avanti. Non serve più pubblicare e basta, i dati devono essere agganciati a processi di partecipazione o codecisione.»

Che ruolo spetta alla società?

«Un ruolo di codecisione. Bisogna portare gli utenti a essere codesigner delle politiche e dei servizi in modalità paritaria. La consultazione non regge se si tratta di un finto ascolto su decisioni già prese. Purtroppo è proprio la politica a ostacolare la nascita di strategie positive, non viene considerato un tema strategico.» 

E che ruolo invece giocano i contesti locali?

«È grave che da questo processo siano fuori le Regioni. Il progetto di OpenGovernment Partership ha visto Regioni ed Enti locali assenti. In un Paese con orientamento pseudofederalista è una follia disinteressarsi completamente di queste tematiche. Se ci sono milioni di cittadini coinvolti e che si confrontano sul tema, non esserne al centro può diventare discriminatorio.»

Da dove si comincia?

«Perchè non pensare magari proprio in Basilicata costruire una progettualità, piuttosto che andare al traino? Con l’umiltà di imparare dagli altri, reinterpretando ciò che ha avuto successo altrove. Qui abbiamo una tradizione giuridica  importante, dovremmo però ripiegarci a studiare. Ecco perché sono ottimista pensando che se le cose hanno funzionato altrove, perché non dovrebbero qui? Ma restando fermi, il rischio di rimanere ancora un passo indietro è molto alto.» 

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