Antonio Tricarico
3 minuti per la letturaIl 1935 è un anno tristemente cruciale nella storia contemporanea.
A marzo, Hitler ordina il riarmo della Germania, violando così il Trattato di Versailles; qualche mese più tardi (a settembre) arriveranno le leggi di Norimberga. Sono i primi passi di un cammino lungo dieci anni, che trascinerà l’Europa e il Mondo negli orrori della Guerra e dell’Olocausto.
In Italia, mentre Mussolini rompeva gli accordi con la Società delle Nazioni invadendo l’Etiopia (il 3 ottobre), il calcio diventava sempre più popolare grazie alla vittoria nel Mondiale del ’34, disputato nella nostra penisola per volontà del Duce a scopo puramente propagandistico. L’ossatura di quella formazione era composta dai giocatori della Juventus, club che proprio in quegli anni costruiva il suo primo ciclo vincente, conquistando cinque scudetti consecutivi tra il 1930-31 e il 1934-35. Il dominio bianconero venne interrotto solo nella stagione seguente, quando la prematura scomparsa del presidente Edoardo Agnelli, unita all’addio del tecnico Carlo Carcano (uno dei massimi esponenti del Metodo e assistente di Vittorio Pozzo in Nazionale), rimescolò le carte e spianò la strada ai successi del Bologna e dell’Ambrosiana-Inter, prima dell’avvento del leggendario Grande Torino nell’immediato dopoguerra.
È in questo contesto di grandi stravolgimenti che si afferma Antonio Tricarico, il primo lucano di sempre a calcare il palcoscenico della Serie A. Nato a Salandra il 30 maggio 1912, dopo gli anni passati in oratorio e le esperienze di Vicenza e Perugia, utili per “farsi le ossa”, nel 1935 il giovane portiere venne ingaggiato dalla Triestina, dove militava il coetaneo Nereo Rocco, l’indimenticato ‘Paròn’ vincitore di 10 trofei alla guida del Milan (tra i quali due scudetti e due Coppe dei Campioni), a cui è dedicato lo stadio degli Alabardati.
Il suo percorso calcistico si intreccia anche con quello di István Tóth, allenatore tra gli artefici della resistenza ungherese, fucilato dalla Gestapo a Budapest pochi giorni prima della liberazione della capitale magiara insieme al collega Géza Kertész, che lasciò il segno a Catania, dove gli è stata anche intitolata una via. Tóth fece esordire Tricarico nella massima serie esattamente ottanta anni fa, il 20 ottobre 1935 (quinta giornata, Triestina-Alessandria 0-0), ma gli preferì quasi sempre Egidio Umer fino all’8 dicembre, quando il salandrese giocò la sua terza partita da titolare mantenendo la porta inviolata contro il Milan.
Da quel momento, il 23enne venuto dal profondo Sud diventò la prima scelta tra i pali: subì una sola rete nei primi sei incontri disputati, poi fornì altre ottime prestazioni, affermandosi come uno degli estremi difensori migliori del torneo. La Triestina chiuse al sesto posto nel campionato vinto dallo ‘squadrone che tremare il mondo fa’, il Bologna di Renato Dall’Ara e del goleador Angelo Schiavio (l’eroe della finale iridata contro la Cecoslovacchia, fu sua la rete decisiva realizzata nei tempi supplementari), allenato dallo sfortunato Árpád Weisz, il grande tecnico ebreo-ungherese, vincitore di tre scudetti in Italia (due con il Bologna, uno con l’Ambrosiana-Inter), che sarebbe stato costretto a lasciare lo Stivale appena due anni dopo, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, per poi morire nel ’44 ad Auschwitz.
Tricarico giocò a Trieste per cinque stagioni (con fortune alterne) e fu compagno di squadra anche di Ferruccio Valcareggi (CT vice-campione del Mondo nel 1970 e campione d’Europa nel 1968) e Giuseppe Grezar, scomparso nella tragedia di Superga. Dopo il ritorno a Vicenza e la parentesi nella Ponziana (altra compagine del capoluogo friulano), chiuse la sua carriera nel Mantova e si stabilì in Lombardia con la famiglia.
Un calcio d’altri tempi, ricco di ideali e personaggi straordinari, ai quali il destino non sempre ha riservato un trattamento di favore. Antonio Tricarico ha vissuto in un’epoca buia, complessa, ed è stato il pioniere in Basilicata, colui che ha aperto la strada alle imprese dei campioni di ieri e oggi, come Selvaggi, Mancini, Colonnese e Zaza. Quello dedicato a lui è solo il primo capitolo di un libro già denso di storie, ma ancora tutto da scrivere.
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