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Una esibizione di Antonio Infantino

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La sua è stata una vita costellata da collaborazioni con i più grandi, da Fo a Capossela. Stava per pubblicare un nuovo disco

È morto ieri a Firenze, all’età di 74 anni, il musicista, poeta e artista lucano Antonio Infantino, leader storico de “I Tarantolati di Tricarico”, gruppo di musica popolare e tradizionale. Nato a Sabaudia nel 1944, vive e cresce a Tricarico, cittadina in provincia di Matera. Qui si radica in lui quel profondo attaccamento ai valori ed alle sonorità della vita tradizionale e rurale che da sempre lo accompagnano nel suo peregrinare. Laureato in Architettura, nel 1975 fonda i Tarantolati di Tricarico (di cui comunque negli ultimi anni non ha più fatto parte) i quali propongono una ricomposizione di canti popolari tradizionali, oltre a canti composti dallo stesso Infantino su ispirazione popolare. La sua è stata una vita costellata da collaborazioni con i più grandi, da Fo a Capossela. Stava per pubblicare un nuovo disco. Di seguito pubblichiamo la storia di un incontro particolare con Infantino in un appartamento a Potenza nel 2013.

 

POTENZA – Di fronte a noi c’è un quadro di dimensioni importanti, astratto. Due forme sinuose incurvate in verticale vanno per toccarsi al centro. Sembrano due foglie.

«La vedi la vibrazione?».

In testa moltissimi pensieri confusi, un momento paralizzante, il rischio di dire qualcosa di sbagliato.

«Ma la vedi la vibrazione? La vedi sì o no? Lì dove le due forme si toccano c’è tutto!». La voce è forte quasi rabbiosa. E’ solo foga.

Timidamente dico di non aver capito, la risposta arriva impetuosa. «Ma tu stai troppo vicino a ‘sto quadro, devi allontanarti. Se guardi al centro del quadro noterai la vibrazione. E’ tale e quale alla storia delle dita di Dio e Adamo che si toccano nella Cappella Sistina. L’universo è in quel punto, una sola grande vibrazione, se fai attenzione puoi persino sentirla. Fa’ silenzio, la vedi? La senti? Ma no questo rombo, quella è la caldaia».

Avevo a fianco Antonio Infantino, la sua barba impetuosa sale e pepe. Uno dei più grandi. Uno che sul monte Olimpo ha un posto riservatissimo. Una settimana sotto lo stesso tetto assieme all’inventore di Tara’n’trance. Idea tra le più più folli e riuscite della seconda vita di Infantino: mettere insieme i ritmi tribali delle tarante e le casse dritte della techno-trance degli anni Novanta. Era un atto enorme, un manifesto culturale in un brano. Lo dissi mentre eravamo seduti ad un tavolo, in una sala da pranzo di un appartamento nella notte fonda di Potenza. Quel pezzo ha cambiato la percezione di tantissimi giovani musicisti al Sud. A molti “puristi” un po’ più giovani ha anche spalancato le porte della musica elettronica. Seduto su una sedia, gomiti poggiati sul tavolo della cucina, libri, appunti e la sciarpa in testa. «Quella è stata una scelta quasi naturale. Scusa, pensa ai ritmi delle tarante e pensa alla musica trance. Condividono lo stesso battito, la stessa necessità spirituale e mistica di liberazione». La stanza è grigio nebbia. Potere delle Dunhill, pacchetto rosso, quello largo. «Rarissimo da trovare. Ogni volta devo farmi il giro di quattro o cinque tabacchini». Chiedo una sigaretta. Vorrebbe, ma davvero queste Dunhill sono quasi impossibili da trovare. Mi propongo, credo di averle viste in un distributore. L’accordo è fatto: vado a comprare quanti più pacchi di sigarette possibili in cambio del suo tempo. Nella casa c’è un pianoforte, evito di sfiorarlo per evidente soggezione. Un pomeriggio, mettendo due o tre accordi in fila, spunta dalla porta: «Non fare troppo il jazzista». Gli accordi complicati «non servono. La nostra tradizione musicale è semplice e diretta». Una provocazione? Detto da lui che ha collaborato con gente del calibro di Charlotte Moorman e Alvin Curran in piena avanguardia. Glielo faccio notare. Sorride: «Ma mi stai guardando la biografia? Sono cose vecchie, però come ci divertivamo. Voglio dire, anche tu devi fare quelle cose ma poi mi raccomando trova la tua strada. Si può essere di rottura anche con un brano pop». I giorni passano, il quaderno si gonfia. Appunti, disegni, spirali e mandala. Me li spiega uno ad uno. Mi racconta la sua concezione di geometria universale, di matematica che muove tutte le cose. Sembra un alchimista alle prese con il senso del Mondo. Senza pretendere di ordinarlo. «Seguire la natura, il caos e l’ordine infinito». Sono appunti di «un’idea che sto portando avanti da un po’» scritti a mano nel cuore della notte tenendo uno scialle in testa. «Mi serve, fa pressione e mi aiuta a gestire i pensieri». Quello scialle è un’icona, dal vivo è onnipresente. Parliamo della sua tecnica alla chitarra, una sigaretta dopo l’altra a finestre chiuse. «La classica tradizione battente, che poi non è solo nostra, si perde nella notte dei tempi». L’ultimo vero anarchico in un’epoca standardizzata. Mentre noi giovani cerchiamo un posto nel mondo lui deliberatamente lo rifiuta. Un uomo di rottura «ma con tante rotture», accendendosi l’ennesima Dunhill.

«È vietato fumare all’aria aperta perché se fumi al chiuso può fumare anche chi non ha i soldi per comprare le sigarette», mi dice. Solo dopo ho capito che era una sua stessa citazione. Eccolo lo sciamano hypermediale, l’uomo che ha rotto il muro del cyberpunk nella musica più conservatrice del mondo, dopo una carriera lunga e complessa. Un piede nella Beat Generation, poi i lavori con Dario Fo, le colonne sonore e i dischi. «Ne sto scrivendo uno nuovo proprio adesso» dice. Qualche anno dopo nacque la collaborazione con Vinicio Capossela. Parte di quella storia è nata su quel quaderno e su quel tavolo della cucina. Ore di studio indefesso, come un amanuense. Mi faccio coraggio, un respiro profondo. «Le tarantelle non sono proprio il mio forte – dico – sono troppo ripetitive, le trovo noiose». La voce si fa grossa, sgranata. «Non puoi mandare a quel paese la tua tradizione. Ci sono storie millenarie dietro tutta quella musica suonata. Una tradizione che supera il concetto stesso di musica. Sono la nostra tradizione orale. Studia! Che stai ascoltando ora?».

«Miles Davis».

«Eh, devi ascoltarlo, ci mancherebbe, ma ti devi ricordare chi sei e da dove vieni». Mentre lo dice nasconde con la mano un foglio scritto. Lui che ha pubblicato una raccolta di poesie con una spettacolare introduzione di Fernanda Pivano. «Alla fine se fai musica o fai poesia sempre alle parole devi pensare. Io faccio così, scrivo tantissimo e poi ci ragiono sopra». L’aspetto è proprio quello del profeta, del pozzo di scienza e tecnica, di arte. Il saluto è un lungo abbraccio e la promessa di suonare qualcosa insieme.

«Lo vedi quel quadro? L’ho fatto io, adesso la vedi la vibrazione? Mi raccomando studia, leggi e metti tutto in discussione, sempre».

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