L’ingegnere Amalia Tedeschi
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Il neo comandante provinciale dei Vigilfuoco di Matera, Amalia Tedeschi, dopo una lunga esperienza al nord torna a casa pronta a lavorare per la sua terra. E si racconta in questa intervista
Non è solo questione di coraggio. C’è anche la capacità di essere solidali, empatici, di infondere fiducia in circostanze che spesso la mettono alla prova. Essere Vigile del Fuoco vuol dire sapere coniugare questi elementi trasformandoli in professionalità e affidabilità, spesso in tempi brevissimi. Il nuovo Comandante provinciale dei Vigili del Fuoco di Matera, l’ingegnere Amalia Tedeschi, da poco più di due settimane alla guida del Corpo, ha alle spalle una storia professionale di straordinario spessore: lauree in Ingegneria Civile e in Ingegneria della Sicurezza, due Master, 50 anni e una carriera che l’ha portata sui principali teatri dell’emergenza italiana: dall’alluvione in Liguria al terremoto de L’Aquila al crollo del ponte Morandi.
Quali caratteristiche richiede coordinare gruppi di lavoro per una professione così particolare?
«Svolgiamo essenzialmente attività di soccorso tecnico urgente, ma non solo. Nella gestione e di coordinamento delle squadre è necessario rigore legato alla delicatezza di quello che facciamo che ha anche risvolti di tipo emotivo, di vicinanza e contatto con il dolore e la sofferenza delle persone. Da un lato serve preparazione tecnica ma anche capacità di prendere decisioni a volte anche velocemente, di gestire il personale, di comprendere le loro condizioni, inoltre c’è il contatto con le persone e con le loro necessità. È un lavoro che ci porta a essere al servizio degli altri e questo è il punto da cui partire, cercando di fare anche più di ciò che è nelle nostre possibilità, tarandoci sull’obiettivo: soccorrere chi ha bisogno».
Perché ha deciso di fare il vigile del fuoco?
«Non l’ho deciso. Non sono stata la bambina che al passaggio del camion dei vigili del fuoco sognava di essere una di loro, né avevo parenti che facevano parte del Corpo. I primi sei anni dopo la laurea in ingegneria, li ho svolti in uno studio tecnico in Puglia nel quale mi occupavo di impianti di depurazione. Un giorno un mio compagno di Università mi propose di partecipare al concorso e in quella occasione mi domandai a cosa servivano gli ingegneri nei Vigili del Fuoco, non avevo idea di cosa facessero. Ho cominciato a leggere regolamenti e disposizioni e ho partecipato. Il destino poi ha fatto la sua parte. L’ho superato, cominciando il corso di un anno a Roma. Quello che dovevo conoscere su questo mestiere, l’ho imparato sul campo quando mi hanno assegnato al Comando di Genova come funzionario direttivo. In quattordici anni di lavoro ho costruito una esperienza nell’ambito del soccorso di cui sono molto orgogliosa. È stata dura perché l’approccio a determinate situazioni non è stato semplice a livello personale e ogni intervento porta con sé alcune cicatrici».
Qual è stato il suo primo intervento?
«A Napoli, durante il corso ero in affiancamento e siamo intervenuti perché un operaio di 27 anni di una ditta in appalto delle Ferrovie era morto folgorato mentre lavorava su una linea elettrificata. È un ricordo molto forte che mi ha fatto riflettere sulla banalità della morte: gli avevano detto che quella linea era stata disalimentata ma non era così. È una delle prime cicatrici che porto ancora con me».
Lei ha lavorato a lungo a Genova, non possiamo non chiederle se era in servizio quando è crollato il ponte Morandi
«Quel giorno ero il funzionario di guardia».
Che ricordo ha?
«La velocità del tempo che passa. Era un pre festivo ed eravamo in servizio in due. Uno si è recato sul posto e io sono rimasta per le prime due ore in sala operativa a gestire le richieste di uomini e mezzi per portare soccorso. Poi ci siamo dati il cambio. Sono arrivata sul luogo verso le 13,30 dove c’era l’intero dispositivo di soccorso e di quei momenti ricordo due episodi. Nei concitati momenti del crollo c’è stato un incendio in un appartamento a Cornigliano, nello stesso quartiere del ponte. Il traffico era congestionato e noi non sapevamo come arrivare mentre la gente continuava a telefonare per chiedere soccorso. Partì da Busalla una squadra, il distaccamento più distante ma l’unica rimasta a coprire il soccorso tecnico nella zona. In quell’appartamento siamo riusciti a salvare una persona. L’altro episodio che ricordo in quelle ore è legato ai colleghi di tutta Italia che si trovavano in zona e che si presentarono al Comando in pantaloncini e abbigliamento da vacanza per dare la loro disponibilità per i soccorsi. Per quanto mi riguarda cominciai a lavorare la mattina del 14 agosto e tornai a casa a mezzanotte del giorno di ferragosto. Quei colleghi da tutta Italia hanno dimostrato la condivisione che in quella occasione non ha riguardato solo i genovesi. Alla fine della giornata, poi, davanti alla nostra sede i genovesi affissero un bellissimo striscione per ringraziarci. Quell’esperienza è durata cinque mesi perché ci siamo dovuti occupare anche del recupero delle vittime, dei beni delle persone che abitavano nei palazzi adiacenti al ponte, l’installazione di sensori sui monconi di ponte in piedi e l’attività di polizia giudiziaria che ho seguito direttamente. Un periodo in cui si è lavorato 12 ore al giorno senza sosta».
Sotto il profilo psicologico, per un vigile del fuoco è necessario avere un proprio meccanismo di autodifesa o ci sono anche strumenti previsti all’interno del Corpo?
«Il Corpo Nazionale da anni si è posto il problema. In prima battuta si ragionava di supporto fra pari, grazie a colleghi che avevano seguito corsi specifici per aiutare chi era in difficoltà. Questa condizione è legata all’intervento che viene effettuato ma anche allo stato in cui si trova il singolo Vigile del Fuoco. Ricordo la vicenda di un capo reparto di Genova con una esperienza trentennale intervenuto più volte anche in casi di anziani deceduti soli. Aveva svolto l’ennesimo soccorso in casa di una anziana che dal sonno era passata alla morte ma poco tempo prima aveva perso sua madre. Aveva cominciato, quindi, a sognare la stessa immagine della donna trovata morta a letto, pensando a sua madre, vivendo un disagio che non riusciva a esternare. Ecco perché credo sia fondamentale, essendomi occupata anche della sicurezza, parlarne anche all’interno della squadra. Oggi ci si è ulteriormente evoluti grazie agli psicologi della Croce Rossa che in interventi come il crollo del Ponte Morandi o come nel caso dei colleghi deceduti a Matera lo scorso anno, svolgono supporto psicologico per il personale. Ognuno di noi, comunque, crea una propria corazza. Io, nei primi tempi successivi al crollo del ponte Morandi avevo continuato ad avere rapporti con i familiari delle vittime ma non riuscivo più a lavorare serenamente e da alcuni anni non partecipo più alle commemorazioni annuali perché riaprono una cicatrice».
Che ricordo ha dell’esperienza a Biella?
«È una città molto simile a Matera dove ho trovato una collaborazione interna e istituzionale gratificante. E’ un bel ricordo che porto con me. Ho lavorato lì 14 mesi ma sono stati molto intensi durante i quali è nata una interazione molto bella; sono convinta che nei Vigili del Fuoco siano importanti rispetto e chiarezza. Quando si vivono esperienze come quella di Genova o nelle emergenze, nei terremoti, si diventa molto più che semplici colleghi».
Cosa ha pensato quando le hanno comunicato che la sua nuova destinazione sarebbe stata Matera?
«Finalmente torno a casa. Avrei avuto possibilità di rientrare già qualche anno fa, ma poi ho deciso di rimanere al nord. Ora si era creata questa opportunità e ho pensato a mia madre, alla mia famiglia, alle mie sorelle e che fosse arrivato il momento giusto. Ho lavorato lontano da casa per 17 anni e oggi credo sia importante dare il mio contributo alla mia terra, basato sull’esperienza».
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