INDICE DEI CONTENUTI
- 1 Il suo lavoro in Guinea riguarda non solo le emergenze territoriali ma anche gli aspetti che consentono analisi e dunque progettazione di azioni di sostegno?
- 2 Da questa prima fase del monitoraggio che cosa emerge?
- 3 Il vostro lavoro, quindi, deve muoversi soprattutto in ambito culturale?
- 4 Com’è al momento la situazione politica in Guinea?
- 5 L’Africa, comunque, non si può definire un Continente tranquillo anche se, al momento, sono due i conflitti di cui si parla più spesso.
- 6 L’attività delle Agenzie Onu, in particolare quella di assistenza alle popolazioni in difficoltà nelle aree di guerra è sempre più complicata; il recente caso di Rafah è emblematico. Il tema della pacificazione, per voi, è più complicato con un raggio d’azione sempre più difficile?
- 7 Lei riesce a vedere vie d’uscita in questi due grandi conflitti?
- 8 Tornare a Matera con questo bagaglio di esperienze è ogni volta un sospiro di sollievo?
Il materano Francesco Galtieri racconta le sue missioni e gli scenari drammatici nel mondo toccati con mano lavorando per l’Onu
Dal Liceo classico “Duni” di Matera, passando per l’Università di Harvard, l’Orientale di Napoli fino all’organizzazione internazionale in cui da anni divide esperienze professionali e personali: le Nazioni Unite.
Lavorando in diverse Agenzie dell’Organizzazione, il materano Francesco Galtieri ha toccato con mano realtà come la Siria e l’Africa e oggi la Guinea.
E’ qui che continua il suo impegno come rappresentante del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. L’Agenzia dell’Onu, si occupa dei diritti sessuali e riproduttivi e di ciò che riguarda l’accesso alla salute materna, l’eliminazione dei decessi al momento del parto e tutto ciò che riguarda pianificazione familiare e diritti delle donne, a cominciare dalla contraccezione per arrivare fino alla lotta alle violenze di genere, alle mutilazioni genitali e ai matrimoni forzati. In Guinea , tra l’altro, è attivo anche un settore specifico, l’Agenzia della Popolazione, che si occupa dell’accompagnamento dei Paesi nella raccolta dei dati demografici, del censimento.
Il suo lavoro in Guinea riguarda non solo le emergenze territoriali ma anche gli aspetti che consentono analisi e dunque progettazione di azioni di sostegno?
«Ci assicuriamo innanzitutto che i Governi effettuino un buon sistema di raccolta e non manipolino i dati demografici e in tema di diritti sessuali lavoriamo molto con i giovani. Il 77% della popolazione in questa area infatti ha meno di 35 anni».
Da questa prima fase del monitoraggio che cosa emerge?
«La Guinea in tema di mutilazioni genitali, è seconda solo alla Somalia in tutto il mondo. Si tratta di dati che risalgono a qualche anno fa; da quando cioè, non ci sono stati altri dati ufficiali. Ci auguriamo comunque che nel tempo il fenomeno si sia ridotto ma, in quel momento, risultava che il 95% delle donne in età adulta avesse subìto una mutilazione genitale».
Il vostro lavoro, quindi, deve muoversi soprattutto in ambito culturale?
«Proprio così. E’ una vicenda profondamente culturale e di incomprensione della religione e anche per questo lavoriamo molto con i leader religiosi. Si usa infatti ancora questo argomento, per quanto sia ormai appurato che da nessuna parte nelle Scritture di religione musulmana sia giustificata né richiesta la mutilazione; neanche il Profeta ha mai mutilato sua figlia».
Com’è al momento la situazione politica in Guinea?
«C’è stato un colpo di Stato militare a settembre 2021 e da allora c’è un governo composto in buona parte da civili. Il presidente è un militare come la sua giunta che comunque ha anche ministri civili. C’è insomma una fase di transizione e al momento si sta scrivendo una nuova Costituzione; noi stiamo accompagnando questo processo, che ci è stato detto, non verrà concluso entro il 2024 e quindi dovremo vedere che provvedimenti attuerà la comunità internazionale perché su questo cronoprogramma era stato firmato un accordo per negoziare il processo di transizione».
L’Africa, comunque, non si può definire un Continente tranquillo anche se, al momento, sono due i conflitti di cui si parla più spesso.
«La Guinea confina con cinque Paesi di cui due sono molto problematici, in particolare il Mali perché penetrato da terroristi e con un Governo che ha mandato via le forze occidentali e fatto chiudere la missione dell’Onu. C’è il timore che a livello transfrontaliero il terrorismo possa arrivare anche in Guinea ma al momento sembra sia stata risparmiata anche grazie al nostro lavoro ai confini, contro il rischio di penetrazione e soprattutto per lo sviluppo economico, in modo da offrire ai più giovani alternative all’arruolamento.
Quello che rende la Guinea un elemento di attrazione mondiale è il fatto che sia il secondo produttore al mondo di Bauxite, usata per produrre l’alluminio, oltre che esportatore di oro.
Tutti i Paesi, quindi sono interessati a fare business come i cinesi, i turchi o i russi. A differenza degli altri Paesi della regione westafricana, non mostra segnali di rigetto nei confronti delle relazioni politiche dalla Francia».
L’attività delle Agenzie Onu, in particolare quella di assistenza alle popolazioni in difficoltà nelle aree di guerra è sempre più complicata; il recente caso di Rafah è emblematico. Il tema della pacificazione, per voi, è più complicato con un raggio d’azione sempre più difficile?
«La realtà, dal mio punto di vista che conferma anche le parole del Segretario generale, è che i Paesi hanno molto ridotto il loro impegno sul multilateralismo in tema di pace, per cercare di risolvere i conflitti all’interno dell’Onu. Noi rappresentiamo due aspetti: il consenso degli Stati e l’organizzazione con le diverse Agenzie, che esegue ciò su cui gli Stati si mettono d’accordo.
Il fatto che questo avvenga sempre più raramente, su cosa fare insieme negli scenari di guerra, fa sì che il nostro raggio d’azione sia limitato fermo restando che ci sono Paesi in via di sviluppo dove si vuole collaborare. In alcuni Stati c’è un ritorno alle relazioni bilaterali e questo porta a risoluzioni Onu un po’ ’spuntate’, più che altro si prevedono appelli ai principi ma poca operatività anche se ciò che prosegue all’interno dell’Onu è il lavoro dietro la quinte che impegna i vertici impegnati con un grande lavoro come è accaduto con l’accordo del grano fra Ucraina e Russia.
Se non ci fossero stati alcuni funzionari dell’Onu, quei negoziati non si sarebbero ottenuti. Per quanto ci riguarda, nel concreto, come è accaduto quando sono stato in Siria, è negoziare l’accesso umanitario cioè quello che i colleghi stanno facendo a Gaza sotto le bombe dove le donne continuano a partorire solo con la luce delle torce, senza acqua pulita in una situazione drammatica perché bisogna negoziare tutto con tutti quelli che sono coinvolti».
Lei riesce a vedere vie d’uscita in questi due grandi conflitti?
«La storia ci ha insegnato che tutte le guerre finiscono con una forma di pace, negoziata con un accordo che dipende dal controllo delle forze in quel momento.
Se storicizzo, resto ottimista . Il problema è che oggi per chi, come noi, non è vicino a quei conflitti, non si dispone di tutte le informazioni per capire quanto sia vicino o lontano un accordo. In contesti così complessi le intese si mantengono su un castello di carta e su sulla buona volontà fra gentiluomini. Quando si raggiungono livelli di sfiducia reciproca, come in questi casi, tra le parti in conflitto e fra molte delle parti coinvolte nel negoziato, molto si basa sul personale.
Gli scenari a cui abbiamo assistito, come la Siria e lo Yemen che sono in fasi non più così attive, indica che sono conflitti congelati in cui non c’è una vera soluzione ma una riduzione delle frequenza delle operazioni militari e il rischio che si possa finire in conflitti protratti in particolare per l’Ucraina che è un ‘sistema Paese’ contro un altro ‘Sistema Paese’. Il caso della Palestina, della striscia di Gaza? quando si osservano i livelli di distruzione ci si chiede quanto possa ancora andare oltre.
Le due dinamiche sono diverse anche per estensione delle operazioni e obiettivi che sono diversi, dunque la loro evoluzione e durata sarà differente. Non dimentichiamo intanto che il conflitto in Sudan sta proseguendo, anche se sembra sia di seconda classe anche se ugualmente drammatico per l’impatto sulla popolazioni».
Tornare a Matera con questo bagaglio di esperienze è ogni volta un sospiro di sollievo?
«E’ sempre così, se non altro perché ‘disoccupo la mente’ da questioni problematiche, perché quello di cui mi occupo mi coinvolge emotivamente ogni volta. A Matera inserisco il ‘pilota automatico’ anche grazie agli affetti e alla quotidianità: dall’acquisto del pezzo di focaccia al caffè o alla cena con amici e l’abbraccio per strada».
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