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Annunziata Giordano detta Tina

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POLICORO – Ci sono tanti punti oscuri, nelle indagini sulla morte della 54enne di Policoro Annunziata Giordano, detta Tina, avvenuta il 25 settembre del 2019 nell’ospedale San Carlo di Potenza per un’emorragia cerebrale, sulle cui cause non si è ancora fatta chiarezza. Ritardi, omissioni e leggerezze, che potrebbero aver compromesso, o distolto l’indagine stessa dalla giusta direzione.

L’INDAGATO
Per il tragico episodio è indagato Luigi Costa, un 50enne di origini siciliane, che la donna aveva conosciuto nella chat di incontri “Badoo” e quasi subito si era presentato nella sua abitazione di via Potenza a Policoro, stabilendo lì persino la sua residenza. Un colpo di fulmine, si direbbe, che secondo le prime risultanze investigative si sarebbe tradotto quasi subito in una convivenza tribolata, fatta di possessività da parte dell’uomo e litigi molto frequenti anche di notte. Costa, che è accusato di maltrattamenti in famiglia aggravati dall’evento morte, aveva costretto Tina a tagliare i ponti con tutta la sua vita sociale e social, inducendola persino a cambiare numero di cellulare. Era diventato la sua ombra.

LE STRANE CADUTE
Fino a quel tragico 28 agosto 2019, quando iniziarono i ricoveri ed i malori di Tina, che non aveva mai avuto capogiri e stranamente ne accusava con cadenza quotidiana; tanto da giustificare con cadute accidentali, gli ematomi alla testa. Ad oggi, infatti, non ci sarebbe alcun nesso causale tra i litigi animati con Costa e l’emorragia poi risultata letale per la donna. Tina è morta per le conseguenze di un’emorragia cerebrale diagnosticata e mai monitorata.

UNA PROBABILE PROVA FINITA NEI RIFIUTI
Tra le probabili gravissime leggerezze nelle indagini, c’è certamente l’analisi su di un grosso fermaporte cilindrico in metallo lucido, trovato nell’abitazione di Tina dagli agenti della polizia scientifica, che hanno condotto le indagini subito dopo la morte della donna. Un oggetto di probabile interesse investigativo, finito inspiegabilmente nell’immondizia, nonostante alla prova del Luminol, esperita l’11 ottobre 2019, evidenziasse “discromie sulla parte inferiore della superficie esterna -come si legge nella relazione della Scientifica- corrispondente a sostanza biologica appartenente a Giordano Annunziata. Si evidenzia che tali discromie si caratterizzavano per il colore rossastro”. Quindi, la Scientifica chiedeva ulteriori verifiche, per accertare se si trattasse di sangue. Allora perché questo importante potenziale reperto è finito nell’immondizia? La risposta è semplice quanto disarmante: il primo accertamento è del 11 ottobre 2019, la richiesta di approfondimento è del 22 giugno 2020, quando l’abitazione di Tina era stata già dissequestrata da circa 7 mesi ormai. Il figlio della donna, Luca Mantaque, che vive a Lissone nel Milanese, è entrato nell’abitazione e gli agenti gli hanno detto che tutti gli oggetti trattati con il Luminol sono cancerogeni, quindi vanno gettati. Così Luca, senza sapere cosa ci fosse su quel fermaporte, l’ha gettato con tutto il resto.

L’ABITAZIONE DISSEQUESTRATA IN TUTTA FRETTA
Poco dopo la conclusione delle indagini scientifiche su quella che poteva ancora essere la scena di un delitto, i pm che coordinavano le indagini, dopo aver accertato che la Scientifica aveva terminato il suo lavoro, furono indotti a dissequestrare l’abitazione. Ecco perché Luca rientrò in casa e dovette gettare tutto, compreso il fermaporte. Un’altra leggerezza: perché, infatti, chiedere il dissequestro di un’abitazione destinata a rimanere vuota, quando ancora quelle pareti e quelle porte avrebbero potuto “parlare”?

I LIVIDI IGNORATI DAI SANITARI
Poi ci sono i lividi e gli ematomi su collo e la fronte di Tina, notati da una coppia di rumeni che viveva in affitto nella mansarda di proprietà della donna. I due il 25 agosto 2019, un mese prima della morte di Tina, riferiscono agli inquirenti di averla vista per il pagamento dell’affitto, notando che camminava in modo barcollante ed aveva due grossi lividi sul collo e sulla fronte; i rumeni, evidenziano anche che Tina, da quando frequentava quell’uomo, era diventata cupa e poco socievole. Da qui l’altro cono d’ombra: perché tre giorni dopo, il 28 agosto, quando Tina si ricovera per il primo malore dovuto all’emorragia cerebrale, allora ancora lieve, i sanitari del Ps di Policoro non indicano nel referto la presenza di questi ematomi visti dai rumeni? Perché, pur definendola “sub-eccitata da ebrezza alcolica”, la ritengono talmente cosciente e presente a sé stessa, da poter firmare la richiesta di dimissioni spontanee nonostante l’emorragia in atto, con la promessa generica di tornare dopo qualche giorno? Elementi che, se prontamente evidenziati, avrebbero attivato il “Percorso rosa”, attirando su Tina e la sua tribolata convivenza un interesse investigativo.

I RITARDI DELLA RELAZIONE SULL’AUTOPSIA
Poi ci sono gli inspiegabili ritardi nella consegna della relazione sull’autopsia, effettuata il 2 ottobre 2019 dal professor Dell’Erba del policlinico di Bari, che ha consegnato il documento ben 13 mesi dopo, il 2 novembre 2020. Tredici mesi, per redigere un atto medico-legale di sole 52 pagine, in cui si conclude che Tina sarebbe morta per una difficoltà nella coaugulazione del sangue, probabilmente dovuta a deficit di piastrine. Forse chiunque, con un’emorragia in atto da un mese senza alcuna cura, sarebbe deceduta come la povera Tina. Il dottor Dell’Erba ha anche concluso che non c’erano tracce di sostanza alcolica nel sangue di Tina. Ma per arrivare a questa relazione, i pm Rosanna Defraia e Annafranca Ventricelli della Procura di Matera, hanno dovuto sollecitare il medico ripetutamente, con cadenza mensile, dal 2 dicembre 2019, quando scadevano i 60 giorni di legge per la consegna della relazione, fino al 15 maggio 2020, quando gli è stata notificata persino una diffida ad adempiere. Quindi, i due pm hanno potuto accertare formalmente le cause della morte della povera Tina solo 13 mesi dopo l’autopsia, non certo per loro responsabilità. Un altro dato che fa riflettere.
«Se si è giunti a questo capo di imputazione, ovvero maltrattamenti in famiglia aggravati dall’evento morte (che espone Costa a una condanna fino a 24 anni ndr) -commenta Maria Pistone, legale di Luca Mantaque- è merito del lavoro straordinario delle pm, che hanno condotto l’indagine con precisione maniacale, senza tralasciare alcun particolare della vicenda, né abbandonare mai il fascicolo, perché non si voleva perdere tempo». Purtroppo, però, il tempo si è perso a causa di altri, e forse un’importante fonte di prova, potenzialmente capace di imprimere una svolta diversa alle indagini, è finita nell’immondizia per l’inspiegabile fretta di dissequestrare la casa di Tina. Errori a cui difficilmente oggi si potrà rimediare, lasciando indietro questi coni d’ombra.

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