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POTENZA – Johnny Torrio – nato in Basilicata e maestro di crimine per Al Capone, il più proverbiale dei gangster americani – morì sulla poltrona del barbiere nell’aprile del 1957. Esattamente come Alberto Anastasia, nel novembre dello stesso anno.

Ma Torrio se ne andò a 75 anni per arresto cardiaco, mentre il famigerato Anastasia a 55 crivellato di colpi.

E se l’irsinese Donato detto Johnny poté arrivare a quell’età, sfuggendo a un destino oramai segnato, fu perché a un certo punto decise di lasciare il crimine. Ossia quel mondo in cui aveva primeggiato.

Non c’è da andare fieri di Torrio, come lucani. E’ un’anima nera, una figura da disprezzare, un vero nemico pubblico. Ma è una storia vera e va raccontata, anche perché ha contorni da romanzo pulp e dettagli da fumetto di Batman.

IN BASILICATA

Donato Torrio nasce il 16 gennaio del 1882 a Montepeloso, come si chiamava fino al 1895 Irsina. Quando ha due anni perde il papà Tommaso, ferroviere, per un incidente sul lavoro.

La madre Maria Carluccio emigra con il figlioletto negli Stati Uniti, a New York. I primi tempi sono duri, nelle baracche del Lower East Side, crogiuolo sociolinguistico di italiani, irlandesi, cinesi e figli degli schiavi afroamericani.

La madre si risposa e Donato (registrato all’anagrafe dalla mamma come Johnny per aiutarlo a inserirsi nella società), ancora poco più che bambino, va a lavorare come facchino nella drogheria del patrigno Salvatore Caputo. E’ una bettola dove si ritrovano i più incalliti bevitori della zona. Compagnie che in qualche maniera formano la personalità di Johnny.

E’ così che comincia a frequentare giovanissimi scapestrati che presto diventano ladri in erba. Le bande impazzano nella metropoli dei primi del Novecento, come ha mostrato Martin Scorsese nel suo “Gangs of New York”. Nel vicino quartiere di Five Points domina incontrastata l’omonima e feroce gang fondata da Paul Kelly.

Johnny si fa valere. E un giorno a notare quel ragazzino che guida la James Street Gang è Kelly in persona.

A NEW YORK

Paul Kelly è un’altra figura centrale. Il primo a capire che le attività criminali debbano collegarsi in una rete, il primo a ripulirsi dell’immagine da macellaio che hanno i gangster all’epoca. Abiti alla moda, allure da gentiluomo. Con i soldi guadagnati come boxeur apre locali notturni (in realtà postriboli) e investe in palestre (quartieri generali per i suoi scagnozzi).

Kelly avrebbe un altro motivo di simpatia per lui: al secolo Paolo Antonio Vaccarelli, è lucano, di Potenza. Ma ciò che conta per lui sono le attitudini di Torrio, il suo talento da furetto di strada. Lo ingaggia subito.

Johnny gli porta somme notevoli, fino a consentirgli di aprire una nuova sala da biliardo. In poco tempo, Torrio diventa il vice di Kelly nella gang. Qui l’irsinese, che è ancora poco più di un adolescente ma ci sa fare come un maturo uomo d’affari, stringe legami fondamentali con altri futuri gangster, come Frankie Yale. Riesce a far soldi col gioco d’azzardo, con la prostituzione, con lo strozzinaggio.

Non ha istruzione, il protégé di Paul Kelly, ma questi gli corregge le cattive abitudini: basta con le bestemmie da scaricatore di porto, no alle giacche sportive (meglio lo smoking) e soprattutto stop all’immagine da delinquente: in pubblico, gli spiega il conterraneo Vaccarelli, devi sembrare un munifico imprenditore e non un sadico rubagalline.

A CHICAGO

Nel 1907 Torrio da New York si trasferisce a Chicago. A chiamarlo nella Città del Vento dalla Grande Mela è Giacomo “Big Jim” Colosimo.

Di origine calabrese, Colosimo ha solo 4 anni più di Torrio ma, grasso e grosso com’è, sembra un vecchio zio. Ed effettivamente lo è diventato: ha sposato la zia di Johnny, Victoria Moresco. E’ stata lei a suggerire al marito di farsi aiutare. Lui – violentissimo tenutario di bordelli – è sotto ricatto della Mano Nera, la banda di estorsori che terrorizza la comunità italiana. Ha paura, non sa cosa fare.

Il nipote lo rassicura: dagli un appuntamento per pagargli quanto chiesto e stai tranquillo. Gli affiliati alla Mano Nera si presentano: non troveranno oro ma piombo. Nessuno di loro si salverà.

Il meno che Colosimo possa fare per sdebitarsi è offrire a Johnny di gestire insieme a lui il suo racket. Torrio accetta.

Gli affari vanno avanti bene. Poi arriva il 1920. E il governo americano compie uno degli errori più grandi della sua storia: il Proibizionismo.

L’alcol diventa illegale. Agli occhi di una Nazione che beve come una spugna, si trasforma nel paradiso perduto per chi lo vuole e dona il tocco di Re Mida a chi lo produce e lo vende.

Mentre nei cinegiornali passano le immagini della polizia che fracassa con l’ascia barili di gin e birra, un popolo di assetati è disposto a tutto per trovare una bottiglia di cattivo whisky prodotto nelle vasche da bagno. I gangster diventano milionari.

Torrio si prepara a tuffarsi nel nuovo business. Ma “zio” Colosimo non vuole: non ha il fegato del nipote, teme la polizia, le gang rivali. Poi ha lasciato la zia e si è messo insieme a una cantante diciannovenne che lo fa sragionare. E’ diventato un ostacolo sulla strada per gli affari.

E così Johnny Torrio, l’11 maggio del 1920, lo fa uccidere dal vecchio amico Frankie Yale. Ora le attività di Colosimo sono dell’ex nipote.

Da qui comincia una scalata criminale che porterà Torrio sempre più su. I soprannomi che guadagna non si contano: la Volpe, il Cervello, Papa Johnny, Johnny il Terribile e il più suggestivo: l’Immune, perché la legge non riesce a perseguirlo. Tanti anche i nomi fittizi – Frank Langley, J.T. McCarthy e John Torrence – che fornisce quando ad esempio vuole giocare a golf senza dare nell’occhio.

Con sé Johnny vuole un ragazzo che ha visto all’opera e di cui apprezza il sangue freddo: Alphonse Gabriel Capone. Lo ha fatto lavorare come buttafuori in un locale, dove guadagnerà la cicatrice che lo trasformerà in Scarface.

Torrio e Capone gestiscono ogni affare sporco che si possa gestire a Chicago, intrecciano rapporti di corruzione con politici e amministratori, pagano generose mazzette a ufficiali e agenti della polizia. Tengono la città in scacco per anni e quando il “loro” sindaco perde le elezioni trasferiscono il centro delle attività a Cicero, sempre in Illinois. Capone resterà sempre fedele a Torrio di cui ammira (e copia) lo stile.

A casa, Torrio passa le serate a tenere la mano alla moglie Anna mentre canticchia le arie d’opera che sa a memoria, quasi le intonasse ogni giorno una serenata domestica. Un marito ideale, agli occhi di Anna Theodosia Jacob, che conosce Torrio come irreprensibile imprenditore, così come viene descritto nelle cronache mondane, in cui si sprecano per lui aggettivi come “brillante”, “generoso”, inappuntabile”. Non è consapevole di chi sia davvero il coniuge.

FUGA AD AMALFI

A metà degli anni Venti l’ascesa di Torrio si scontra con quella del rampante gangster Charles Dion O’Banion, un irlandese che se ne impipa di regole e rispetto. Nel 1924 O’Banion provoca l’arresto di Johnny Torrio. E’ uno sgarro che non si può sopportare: Torrio, di solito incline alle soluzioni diplomatiche, nel novembre del 1924 fa ammazzare O’Banion dal solito, fidato Yale. E partecipa anche provocatoriamente ai suoi funerali, incrociando gelidi sguardi con quelli dei clan rivali.

La risposta non si fa attendere. Il 24 gennaio 1925 Torrio sta tornando a casa, al 7016 di S. Clyde Avenue, dopo lo shopping con la moglie. Non fa in tempo a scendere che l’auto è investita da una gragnuola di colpi di mitragliatori calibro 45 e fucili calibro 12. L’autista di Torrio, colpito alle gambe, cade giù.

Johnny inciampa nei pacchi e pacchetti della spesa e Anna inorridisce a vederlo colpito più e più volte: al braccio, alla mascella, al petto, nello stomaco. Torrio è a terra, impotente, nel suo sangue, quando George “Bugs” Moran gli punta la pistola alla tempia. Il colpo di grazia. Ma la pistola emette solo un rumore metallico: è scarica.

IL SINDACATO

Moran fugge via. Torrio si riprende lentamente in ospedale – protetto dal servizio di vigilanza messo in piedi 24 ore su 24 da Al Capone – e, dimesso, sarà condannato per violazione delle leggi sul proibizionismo. Lo avverte come un segnale. Lascia il “servizio attivo” e parte per una lunga vacanza in Italia, ad Amalfi.

Rientra negli Stati Uniti nel 1928. In Italia è un “indesiderabile”. Non si è ancora allontanato del tutto dall’idea di guadagnare milioni senza lavorare. Prima fonda il cartello di contrabbandieri denominato “Big Seven”.

Poi partecipa nel maggio 1929 alla Conferenza di Atlantic City. Ci sta il fior fiore dei farabutti in gessato degli Stati Uniti. Lui è accolto come il vecchio saggio.

E qui cala l’asso: propone l’istituzione di un Sindacato nazionale del crimine. Un’organizzazione che mette insieme tutti i clan, le gang, le famiglie e fa sì che non ci siano più guerre per bande ma affari ben suddivisi fra i partecipanti. Un’idea accettata da tutti. Sembra quasi la Spectre contro cui combatterà James Bond o le confraternite dei fumetti di Batman o di Capitan America. Del National Crime Syndicate i giornali scriveranno per anni.

Il fisco farà ciò che i procuratori generali non sono riusciti a fare: mandarlo in carcere per due anni causa evasione fiscale.

Torrio consegna le chiavi di tutte le sua attività illegali al vecchio amico e allievo Al Capone e prosegue arricchendosi lecitamente per quasi trent’anni. Morirà, come detto, per infarto a 75 anni mentre attende il turno sulla poltrona del barbiere.

Il funzionario del Tesoro americano Elmer Irey lo giudicherà «il più grande gangster d’America. Era il più intelligente e, oserei dire, il migliore di tutti i teppisti. “Il migliore” si riferisce al talento, non alla morale». Virgil W. Peterson della Chicago Crime Commission dichiarerà: «Il suo talento come genio organizzativo era ampiamente rispettato dai principali boss delle bande nell’area di New York City».

E il giornalista Herbert Asbury commenterà: «Come organizzatore e amministratore degli affari della malavita Johnny Torrio è insuperabile negli annali del crimine americano; era probabilmente la cosa più vicina a una vera mente che questo paese abbia mai prodotto».

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Alfonso Pecoraro

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