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Luca Zaia mostra il granchio blu

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Il granchio blu sta facendo molto preoccupare per i gravi danni provocati alle imprese di pesca, soprattutto settentrionali. Luca Zaia, presidente del Veneto, sta portando avanti una vera e propria crociata contro la proliferazione di questo crostaceo – per la voracità, da lui ribattezzato “Killer dei mari” – di cui, solamente nella sua regione, in un anno ne sono state raccolte qualcosa come 329 tonnellate. Ecco perché il governatore auspica venga messa sotto controllo questa specie che mangia di tutto: cozze, ostriche fino addirittura alle reti dei pescatori.

«I granchi blu stanno spaccando tutto, è un disastro», ha tuonato Zaia che nello scorso luglio ha dichiarato lo stato di calamità e chiesto quello di emergenza nazionale. Il granchio blu non vive solo nei mari, ma anche nei fiumi e nelle paludi ed è arrivato da noi una quindicina di anni fa, portato dalle navi provenienti dalle coste occidentali dell’Atlantico.

Il primo avvistamento del granchio blu in Basilicata

Il suo primo avvistamento risale all’ormai lontano 2008 sul litorale ionico della Basilicata. Ma da diverso tempo il granchio blu ha colonizzato diverse zone della penisola, mettendo a rischio la pesca e le specie nostrane. Tra Veneto e Romagna molti pescatori non trovano niente e non riescono a calare le reti perché questi granchi sono in grado di tagliarle.

Nel decreto legge Omnibus il governo centrale ha messo a disposizione 2,9 milioni di euro per i consorzi e le imprese specializzate, affinché lo catturino e ne contengano la diffusione. In Basilicata non si registrano simili danni, ma qualcosa è già stato fatto poiché sono ben noti i rischi che si potrebbero correre senza un adeguato monitoraggio. Una femmina si riproduce una sola volta nella vita ma, quando lo fa, depone due milioni di uova. Fatte ovviamente le dovute proporzioni, senza un intervento immediato su larga scala si rischia che tutto lo stivale ne venga invaso, come fu per i cinghiali.

Lo studio sul Sinni e l’Agri

«Due anni fa, con i fondi Feamp per la programmazione 2014/2020, in Basilicata è partito un progetto che ha visto impegnati il Comune di Policoro, capofila, Idrosinergyc spin off di Unibo, Organizzazione aggregata (Oa) Wwf Costa ionica lucana e aree interne, Cea di Bernalda Metaponto e Cooperativa di pesca Nereide ed è stato il primo approccio sulla specie, attraverso lo studio di due fiumi: il Sinni e l’Agri».

Il dottor Gianluca Cirelli è un tecnico ambientale, presidente di Flag “Coast to Coast”, con lui abbiamo approfondito cosa è stato fatto finora in Basilicata. Il Flag è una società consortile pubblico-privata che promuove progetti ed attività finalizzati alla tutela ambientale, al sostegno della filiera produttiva costiera e al rafforzamento della governance locale. Il 30 giugno dello scorso anno è terminato un progetto sperimentale di ricerca che, da un lato, mirava a contenere l’espansione del granchio blu e, dall’altro, ha cercato di implementare una filiera, seppure sperimentale, per sfruttarne le potenzialità.

«Il progetto – prosegue Cirelli, di cui è stato collaboratore per conto del Wwf Costa ionica lucana – ha previsto prima una fase di studio e, poi, una di analisi relativa agli sforzi da mettere in campo per contenere la specie. Per 18 mesi abbiamo testato degli strumenti da pesca di diverso tipo, per capire anche fino a dove si spingessero. Inoltre, abbiamo intrapreso un ingaggio di filiera: ovvero un inizio, mettendo assieme il Dipartimento di Sanità della Regione con la “Derado”, un’azienda di trasformazione.

Il granchio blu in cucina

Per cui, i granchi blu che venivano prelevati erano divisi, appunto, tra questa azienda che li trasformava ed i ristoranti e chioschetti che lavoravano con il pesce. L’obiettivo era immettere il prodotto sul mercato». Il granchio blu è difatti noto anche per essere una prelibatezza per i palati, in quanto molto gustoso. D’altronde, il nome scientifico “Callinectes sapidus” fa riferimento proprio al suo ottimo sapore. Negli USA è così ricercato che alcuni stati hanno dovuto imporre un limite alle catture ed è arrivato a costare anche fino ai 150 dollari al chilo.

In Italia il prezzo è molto più basso e varia dai 5 ai 7 euro al chilo. «Abbiamo interpellato degli chef – aggiunge il presidente di Flag – affinché si dilettassero con ricette a base di granchio blu ed, a Marconia, sono state messe in campo una serie di iniziative per favorirne la degustazione e, nel giugno del 2022, a Policoro c’era stata una giornata dedicata al crostaceo che è stato preparato in tanti modi diversi ed è stato assaporato anche crudo. La polpa costituisce il dieci per cento del loro peso, quindi garantisce anche proprietà organolettiche sotto forma di omega 3. La corazza esterna viene utilizzata per prodotti farmaceutici e per i cosmetici, per cui si presta molto all’attivazione di filiere. Con la Regione lo abbiamo portato a Ferrara ed abbiamo intrapreso un discorso di allargamento del mercato anche ad altre regioni, come l’Emilia Romagna».

La lotta al granchio blu

Secondo Fedagripesca la lotta al granchio blu costa 100 mila euro al giorno solo tra Veneto, Emilia-Romagna e Toscana. Le perdite nella produzione di vongole e cozze supererebbero il 50% con il rischio di compromettere anche le vendite dei prossimi anni se questa specie aliena continuerà a nutrirsi del novellame e degli avannotti delle anguille. Tuttavia, accanto ai danni sotto il profilo strettamente economico, bisogna considerare anche le pesanti ripercussioni sull’ecosistema poiché, mangiando di tutto, la presenza dei granchi blu mette a rischio la sopravvivenza delle specie con cui viene in contatto.

La lotta all’invasione

«Nel fiume Sinni non sussistono le condizioni ambientali per ospitarlo – spiega ancora Cirelli – anche per la competizione con il tradizionale granchio lacustre. Diverso il discorso per l’Agri, dove è decisamente molto presente tanto che lo troviamo oltre i tre chilometri dalla foce fino ad una profondità di 14 metri. Inoltre, riesce a conquistare più ambienti: ossia acque dolci o salate. I maschi si spingono più verso l’interno, mentre, le femmine vanno più in profondità e depongono le uova una sola volta nella vita, ma in quantità di due milioni.

Per cui, se non si interviene, possono diventare davvero invasivi anche perché hanno una svariata dieta alimentare. Stiamo lavorando con la Regione ad un nuovo progetto, finanziato dalle risorse Feamp del programma 2021/27, affinché si possano normalizzare i prelievi poiché, essendo una specie alloctona, non è previsto ancora l’inserimento nella filiera sanitaria. La nostra filiera è stata di carattere sperimentale, consentita in quanto legata alla ricerca».

Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, che conferma anche come il primo avvistamento sia avvenuto in Basilicata nel 2008, a permetterne la diffusione, ha spiegato Roberto Scacchi, presidente di Legambiente Lazio, sarebbe stata la «tropicalizzazione del nostro mare», la cui temperatura è sempre più calda, al punto da consentire anche a questa specie “aliena” di riprodursi. «È una specie molto impattante per tutte le altre – sostiene Scacchi – ed ha un fattore dominante anche perché può avere dimensioni importanti e, con le chele, potrebbero anche riuscire a mangiare i nostri granchi».

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