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La Cassazione conferma anche altre quattro pene in abbreviato che di fatto ribadiscono che nella mafia lucana il clan Martorano esiste
POTENZA – Reggono anche in Cassazione le accuse di associazione mafiosa e narcotraffico nell’ambito dell’inchiesta “Lucania felix”, sui nuovi affari del clan Martorano-Stefanutti.
È questo il verdetto della prima sezione della Corte di cassazione. Venerdì sera ha respinto i ricorsi di 5 degli 6 imputati che hanno optato per il rito abbreviato, e sono stati già condannati a pene tra i 2 anni e 8 mesi e i 9 anni e 4 mesi di reclusione. Già ridotti di un terzo proprio per la scelta del rito alternativo.
La Corte ha accolto il ricorso del solo Antonio Masotti di Vaglio, in Appello condannato a 6 anni e 8 mesi di reclusione. Ma «limitatamente» all’accusa di associazione mafiosa. Nei suoi confronti, quindi, disposta la trasmissione degli atti alla Corte d’appello di Salerno per un nuovo processo di secondo grado per la rideterminazione della pena in relazione alle imputazioni residue.
Confermate, invece, le condanne a 11 anni di reclusione per mafia e narcotraffico di Carlo Troia; a 9 anni e 4 mesi per narcotraffico e spaccio per Nicola Sarli; a 2 anni e 8 mesi di reclusione per spaccio per Michele Sarli; e a 6 anni per estorsione aggravata dal metodo mafioso per per Luigi Cancellara di Palazzo San Gervasio e Lodovico Pangrazio di Forenza.
MAFIA LUCANA, IL CLAN MARTORANO ESISTE, SI ATTENDONO LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Le motivazioni della sentenza appena pronunciate saranno depositate nelle prossime settimane.
Il verdetto della Cassazione, ad ogni modo, è destinato ad avere un peso significativo nel processo madre nato dall’inchiesta “Lucania felix”. Processo che è ancora in corso davanti al Tribunale di Potenza, in primo grado, per gli altri 24 imputati che hanno optato per il rito ordinario.
Il gup Teresa Reggio, che a gennaio 2023 scorso aveva emesso il verdetto di primo grado per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, aveva sottolineato il ritorno in attività dello storico clan potentino nel 2005. Otto anni dopo una prima stagione di piena operatività “mafiosa”, interrotta dagli arresti dell’operazione “Penelope”. Con una parentesi di “non mafiosità” nel mezzo, tra il 2000 e il 2004, sancita dalle sentenze che hanno smontato la maxi-inchiesta Iena2.
Il gup era detto convinto dell’esistenza di «un’associazione di stampo mafioso facente capo a Martorano Renato e Stefanutti Dorino Rocco, vertici indiscussi della stessa, operativa nel territorio di Potenza a partire dal 2005».
Quello capeggiato da Martorano e Stefanutti, quindi, sarebbe stato: «un gruppo verticisticamente organizzato che può contare anche su “concorrenti esterni” in grado di garantire, unitamente a taluno dei partecipi, circolarità e scambio di informazioni fra sodali detenuti e sodali liberi (ulteriore dimostrazione di saldezza e compattezza del sodalizio), nonché su concorrenti esterni in grado di offrire stabilmente ausilio nei più svariati settori, soprattutto attraverso la messa a disposizione di luoghi protetti di incontro e di svariati mezzi di trasporto idonei ad assicurare libertà di movimento ai sodali e a rendere quanto meno più difficoltosa l’attività captativa».
Il gup si era soffermato anche su «plurime condotte rilevanti alla stregua di “plateali ostentazioni pubbliche di mafiosità” con chiara valenza dimostrativa, intesa a rimarcare e rafforzare il ruolo egemonico e prepotente del clan».
L’ATTIVITÀ DI RECUPERO CREDITI
In questo senso aveva citato l’attività di recupero crediti, «attraverso la quale, il clan, oltre che accreditarsi sul territorio, ponendosi quale alternativa al sistema legale di recupero, si garantiva introiti, così ponendo in essere condotte sostanzialmente sintomatiche di volontà di sopraffazione». Ma anche «la sua capacità d’intimidazione e condizionamento» dimostrata dalla «manipolazione indiretta degli esiti processuali» e dal «controllo del mercato del lavoro».
Quanto ai «settori strategici di interesse del clan», in sentenza si distingue tra quelli «tradizionali» per un’organizzazione mafiosa come «videopoker, estorsioni, stupefacenti», e «non». Laddove questi ultimi andrebbero intesi in relazione a «realtà imprenditoriali con riferimento alle quali sono state sperimentate forme di vera e propria co-gestione, attraverso una peculiare ingerenza manageriale degli esponenti di spicco del clan».
Il tutto sempre con l’obiettivo di «garantire significativi introiti da utilizzare per il mantenimento dei sodali in vinculis e delle loro famiglie nonché per il pagamento delle spese legali anche attraverso la gestione della cassa comune».
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