Salvatore Ligorio
3 minuti per la letturaPOTENZA – Non luogo a procedere perché il fatto-reato contestato «non sussiste». E’ questa la formula con cui ieri mattina il gup Lucio Setola ha prosciolto il vescovo di Potenza, Salvatore Ligorio, e gli altri imputati nel processo intentato dai pm del capoluogo lucano per alcune dosi di vaccino anti covid 19, che nei primi giorni del 2021 sarebbero state sottratte a degenti e operatori del complesso sanitario Universo Salute – Don Uva di Potenza per essere somministrate allo stesso Ligorio e al suo autista, come pure al presidente del consiglio di amministrazione di Universo Salute, più moglie e figlio.
Le motivazioni della decisione verranno depositate nei prossimi giorni, ma non è escluso che ricalchino quelle già emerse da diversi provvedimenti adottati in numerosi uffici giudiziari del resto d’Italia, che negli scorsi mesi si sono dovuti occupare del fenomeno dei cosiddetti “saltafila”. Inclusa la procura di Catanzaro, competente per i reati commessi dai magistrati in servizio in Basilicata, che nei mesi scorsi ha chiesto e ottenuto l’archiviazione di un’ipotesi di peculato a carico del presidente della sezione penale del Tribunale di Matera, Gaetano Catalani, per un vaccino ottenuto per sé e la moglie «in violazione delle disposizioni emanate dalla Regione Basilicata». Lo stesso Catalani che giusto giovedì si è visto archiviare anche il procedimento per incompatibilità ambientale che era stato avviato nei suoi confronti per questo e altri motivi (LEGGI).
Secondo gli inquirenti calabresi, infatti: «l’utilizzo delle dosi non può considerarsi condotta distrattiva atteso che sebbene utilizzate “irregolarmente”, le stesse non sono state sottratte alla loro funzione e destinazione e a vantaggio di soggetti che comunque ne avrebbero avuto diritto, atteso che la campagna vaccinale ha riguardato tutta la popolazione».
Stesse motivazioni per cui non sarebbe configurabile «alcun danno di natura patrimoniale». Le debolezze dell’impianto accusatorio erano state evidenziate, nel dettaglio, davanti al gup Setola dai difensori dei 9 imputati nel processo potentino: l’avvocato Donatello Cimadomo per il vescovo e l’autista, Massimiliano Scavone; Dino Donnoli per il direttore sanitario del Don Uva, Rocco Maglietta; Alessandro Singetta per il direttore amministrativo Roberto Galante; Giulio Treggiari per il presidente del consiglio d’amministrazione Giancarlo Pecoriello, la moglie Rosa Corsano, e il figlio Davide Antonio Pecoriello; Massimo Maria Molinari per Sergio Molinari, dirigente dell’Asp; e Antonello Molinari per suor Carla, al secolo Maria Sabia.
Per i primi 8 l’accusa era di peculato in concorso, per essersi appropriati indebitamente delle dosi, del valore di una quindicina di euro l’una. Per la sola suor Carla, invece, il procuratore aggiunto Maurizio Cardea e il procuratore capo Francesco Curcio avevano formulato un’ipotesi di favoreggiamento per aver attestato che la somministrazione del vaccino al vescovo era avvenuta per non sprecare una dose rifiutata da un avente diritto.
Il “caso” del vaccino al vescovo di Potenza era esploso all’indomani della somministrazione della dose incriminata, quando era iniziata a circolare la sua foto col braccio scoperto in una specie di spot pro vaccino. Al riguardo Ligorio, d’altronde, si era sempre difeso escludendo di aver «ingiustamente ricevuto un trattamento di favore».
Dalle successive indagini erano emerse le dosi somministrate ai Pecoriello, tanto che i pm ipotizzavano che per vaccinare il padre fosse stato tratto in inganno il personale dell’Asp, sostenendo che lavorasse stabilmente a Potenza invece che a Foggia. Mentre le inoculazioni alla moglie e il figlio sarebbero avvenute nel tardo pomeriggio, quando il personale Asp era già andato via dal punto di vaccinazioni allestito all’interno dell’ex Don Uva, attingendo alle scorte lasciate per il prosieguo delle somministrazioni agli ospiti, il giorno successivo.
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