I carabinieri di Policoro durante il recente abbattimento della casa del presunto boss Schettino
3 minuti per la letturaSCANZANO JONICO – «C’erano delle collaborazioni esterne che bisognava tenere per forza».
Sono le parole riferite da alcuni dipendenti a Giulio Sansone, direttore dei villaggi turistici di Scanzano Jonico “Portogreco” e “Torre del faro”, che il manager ha girato ai magistrati nel novembre del 2016, per far capire loro la pressione intimidatoria ricevuta dal presunto gruppo criminale che imperversava nella città jonica.
Pochi giorni prima, Carlo Fattorini (di Scanzano Jonico) e Vincenzo Di Rienzo (di Roseto Capo Spulico nel Cosentino) gli avevano fatto una telefonata di “affettuosi saluti”; entrambi sono ritenuti dalla Distrettuale antimafia di Potenza fact totum e prestanomi di Franco Carlomagno, tutti in carcere dallo scorso 3 marzo (solo per Di Rienzo il fermo non è stato convalidato) per presunta affiliazione al clan Schettino-Porcelli. Le parole di Sansone, riportate negli atti dell’indagine, rendono molto chiara l’idea del pesantissimo clima intimidatorio che aleggiava a Scanzano in quegli anni. Infatti, proprio davanti al cancello del villaggio Portogreco, nel lontano aprile 2009 fu lasciata una borsa con una bomba rudimentale, per fortuna non esplosa, poi fu incendiato un escavatore che stava effettuando lavori, e furono lasciate altre bombe incendiarie.
Le minacce erano palesi, chiare ed inequivocabili. Sempre dalla testimonianza di Sansone, emerge che i vari collaboratori gli avevano sempre descritto una “situazione difficile da gestire”, riferendosi a Carlomagno ed alla ditta esterna che fornisce il personale, gestita dalla moglie dell’imprenditore. Sansone precisa che già all’epoca gli avrebbero riferito che Carlomagno fosse indagato per associazione mafiosa e Fattorini fosse molto amico della famiglia Schettino, come sarebbe emerso dai racconti dei collaboratori del manager, evidentemente arrivato da pochi mesi alla conduzione dei due villaggi turistici di Scanzano Jonico.
Ci sarebbero stati almeno 100 dipendenti riconducibili alle amicizie di Carlomagno, che sarebbero stati assunti con regolare contratto, rispetto ai quali la Direzione non si sarebbe dovuta preoccupare di nulla: erano gli intoccabili. Sansone poi avrebbe riferito le parole inequivocabili di Carlomagno: “Io sono il capo di Scanzano…io comando”.
L’imprenditore, secondo il manager, avrebbe tenuto sempre un profilo piuttosto basso nei rapporti con lui, tranne una volta, ma il manager precisa di non aver ben capito se fosse un atteggiamento da sbruffone, o la dura posizione di un mafioso. “Se continui così, questo villaggio te lo brucio”, è la frase forte che avrebbe pronunciato Carlomagno all’indirizzo di Sansone all’inizio dell’estate 2015. “Se bruci il villaggio, chi ci rimette sei tu, perché hai 100 persone che ci lavorano…è gente del tuo territorio…io faccio il direttore qua…domani vado a fare il direttore là”, avrebbe risposto Sansone, proseguendo: «Ogni qualvolta ho provato a dire “vorrei cambiare”, mi è stato detto: “No…è meglio di no…è meglio che te lo tieni…è meglio…evitiamo”. Secondo la testimonianza di Sansone, l’ufficio della coop “Smag”, gestito dalla moglie di Carlomagno (che non risulta indagata), che gli avrebbe fornito il personale, si trovava all’interno dello stabile del Municipio, oggi sciolto per infiltrazione mafiosa.
«Quindi si vedono tutti i giorni. -ha rimarcato Sansone- Io non voglio fare il paladino della giustizia, ma è un territorio che non merita queste persone, però sono i primi cittadini di questi paesi, che non hanno mai fatto nulla e sono sempre scesi a compromessi molto forti». Parole come pietre, riferite agli inquirenti da un manager non lucano, che ha aveva questa percezione della società di Scanzano Jonico. Questo e molto altro, ha indotto la Dda ad andare a fondo sulle presunte commistioni tra amministratori, imprenditori e clan.
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