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Il sistema è regolato da una legge di 40 anni fa. Nicoletti (Cgil): «Ora serve una riflessione leale in vista del nuovo piano di dimensionamento»
di EUGENIO FURIA
QUATTROMILA posti di lavoro in meno dal 2008 nel sistema scuola lucano: è quanto paga la Basilicata dall’inizio del processo di tagli su scala nazionale. «La riduzione del personale ha avuto alle nostre latitudini un effetto ben più dirompente che nel resto d’Italia – commenta Eustachio Nicoletti, della Flc Cgil Matera –. Tagli netti che interessano il personale Ata per circa 1200 unità e i docenti per la cifra restante». Se la media nazionale della riduzione di personale è stata del 12%, in Basilicata si è raggiunta quota 18%.
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Che ripercussioni ha questa flessione, in termini di qualità dei servizi?
«Notevole. La Basilicata ha subìto un intervento di riduzione consistente, dando vita a un sistema menomato che si è inevitabilmente ripercosso sulla qualità dell’istruzione ma anche sui servizi, sulla sicurezza, sulla vigilanza, sul supporto ai disabili. Il problema della vigilanza lo abbiamo segnalato più volte alle Prefetture visti i rischi e le ricadute civili e penali per i dirigenti scolastici, che spesso si vedono costretti a delle deroghe proprio al contratto nazionale del personale Ata per garantire un servizio minimo. È per questa e altre situazioni divenute insostenibili che i sindacati parlano senza mezzi termini di emergenza: non c’è supporto all’attività didattica, visto che mancano i fondi ministeriali e da quando la Basilicata è uscita dalle Regioni a Obiettivo 1, sei anni fa, sono terminati i finanziamenti legati a Pon e Por».
E allora che colpe ha la Regione se i tagli partono da Bruxelles e da Roma?
«Ha una colpa e un obbligo: la colpa è quella di aver promosso dei progetti non idonei quando non del tutto fallimentari; penso a quelli che coinvolgevano i precari e faccio il confronto con un’iniziativa simile in Puglia, “Diritti a scuola”, un progetto europeo finalizzato alle attività di sostegno ma anche all’insegnamento delle materie linguistiche e scientifiche».
E l’obbligo?
«L’obbligo è quello di far valere le ragioni della Basilicata manifestando in sede ministeriale le esigenze del territorio: la nostra è una regione debole nei numeri e parcellizzata dal punto di vista orografico e dei collegamenti. I posti sono stati tagliati sulla base del numero assoluto senza tenere conto delle peculiarità del territorio. Attualmente ci sono circa 300 “punti di erogazione”, ovvero plessi scolastici, nei 131 comuni lucani. È una rete che si sta impoverendo e la Regione dovrebbe intervenire con forza. È questo che è mancato».
Il cambio dell’assessore regionale al ramo e la scadenza del nuovo piano di dimensionamento potrebbero essere secondo lei un’occasione per affrontare serenamente una riflessione sul sistema scuola?
«Noi speriamo che da settembre la programmazione sia condivisa e si apra una stagione di confronto vero e leale. Sul nuovo piano di dimensionamento si deve capire che le scuole devono essere messe nelle condizioni di mantenere standard di qualità nella didattica».
In che modo?
«Anzitutto la Regione deve essere chiara su alcuni temi. Prendiamo le pluriclassi: posto che rimarranno (attualmente le classi con alunni di età diverse sono circa 100 in tutta la regione, ndr), si vuole pensare a una modularità dell’insegnamento a un intervento sui trasporti se gli alunni dovranno spostarsi? Scuole e Comuni, da soli, non ce la possono fare… E poi: l’infanzia, la fascia 0-6 anni, è totalmente assente nella legge regionale anacronistica datata 1979. Che novità ci saranno sugli insegnanti di sostegno? E ancora: sulla formazione e sull’alternanza scuola-lavoro si diraderanno i nostri dubbi?».
La “deportazione” della Buona Scuola, come avete definito la fuga di docenti dalla Basilicata, oltre a un ulteriore colpo in chiave spopolamento e invecchiamento non pare aver creato le premesse per un potenziamento dell’offerta didattica. Come se ne esce?
«Il danno è fatto e ai primi di agosto ne vedremo delle belle con i primi trasferimenti. È stato un provvedimento di cui non si avvertiva la necessità, un ragionamento ideologico mosso dalla flessibilità spinta a cui è stato quasi obbligato anche chi non voleva fare domanda. Un meccanismo becero di marca renziana che non ha badato alla territorialità, causando una fuga dei precari da nord a sud. E in grande misura la fuga è partita dalla Basilicata».
e.furia@luedi.it
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