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C’è chi, un po’ di tempo fa, li ha definiti ‘mammoni’, eppure, i giovani italiani, in particolare quelli del sud, voglia di starsene a casa non ne hanno. Così armati non di una valigia di cartone, ma di un titolo di studio, dal valore non indifferente, come una laurea – i più persino di un dottorato – partono alla ricerca di un futuro migliore. Un futuro che l’Italia, purtroppo, non può offrire loro. Questo è quanto è emerso, sostanzialmente, dal Workshop organizzato dal CNR-IMAA, martedi 24 novembre, presso la Sala Convegni dell’Area della Ricerca di Potenza. In occasione di tale dibattito “per una volta gli attori sono stati i ricercatori”, sottolinea Luigi Nicolais, presidente del CNR; dal momento che non è stata la solita discussione sui cervelli in fuga, ma giovani studiosi hanno parlato in prima persona delle loro esperienze e delle motivazioni che li hanno spinti ad andare via. I primi a intervenire sono stati Cosimo Lacava, ricercatore nell’ambito delle telecomunicazioni di prossima generazione, da Southampton; Angelo Strollo, ricercatore nell’ambito della sismologia, da Potsdam; Andrea Di Muro, direttore dell’osservatorio vulcanologico di Piton de la Fournaise: tutti cervelli in fuga, rigorosamente made in sud. È Lacava, noto per la lettera inviata, l’anno scorso, al presidente delle Repubblica Napolitano, il più incisivo di tutti. Una persona: “si sposta all’estero per cercare un posto d’eccellenza dove possa avere sia le risorse economiche sia umane per potere fare al meglio un certo tipo di ricerca […]. Aggiunge, poi, di voler: “Potere avere la tranquillità di fare ricerca senza dovere pensare alla condizione politica del mio paese che come sappiamo influenza i tipi di contratto […]; io voglio essere considerato un lavoratore a tutti gli effetti […]. I dottorandi, in Italia, sono, infatti esentasse, cioè non sono ritenute persone che lavorano a tutti gli effetti. Angelo Strollo, invece, mette in evidenza le difficoltà del vivere all’estero: passando dalla lingua all’inesperienza del sapere mettere in pratica teorie illuminanti, di cui noi italiani siamo capaci; tutto questo perché l’università non plasma i suoi studenti a un certo tipo di carriera. Lacava, Strollo e poi lo stesso Di Muro parlano dell’estero come di un’opportunità irrinunciabile, d’altronde rimanere in Italia o anche ritornarci è un’utopia. Certo, c’è chi è stato più fortunato, si fa per dire, come Nicoae Ajtai, Chandrakanta Oiha e Johannes Jansen, tutti ricercatori stranieri che hanno avuto una change in Italia, al sud addirittura, non senza, però, alcuna difficoltà. Ma si tratta, comunque, di casi sporadici, perché il problema sussiste. Lo sanno bene quei ricercatori italiani che hanno avuto il coraggio di rimanere come: Maria Laura Giuffrida, Eleonora Paradies, Tony Alfredo Stabile e Gioia Tania. Tutti giovani studiosi nell’ambito scientifico che grazie al progetto SIR (Scientific Independence of young Researchers) hanno un contratto a tempo determinato in Italia. Già perché si parla sempre di precariato, di piccole e temporanee opportunità di lavoro che non offrono alcuna sicurezza. Come si fa, infatti, a fare dei progetti, non solo personali, ma anche di studio, se tra sei mesi o un anno tutto finirà? Che senso ha iniziare una ricerca se non si avrà il tempo per portarla a termine? Questi sono i dubbi che attanagliano la mente di chi decide di rimanere, perchè alla base vi è sempre lo stesso problema: la passione per il proprio lavoro e la carenza di fondi. Il governo italiano dovrebbe decidersi una buona volta se investire o meno nei giovani e nella ricerca, insiste Nicolasi, perché o “si investe o i brevetti si comprano dall’estero” aggiunge. Si tratta, insomma, per citare lo stesso Ligabue, “di un sistema che non sistema”. Certo , sarà anche vero che il lavoro fisso è noioso, però dare una piccola sicurezza a questi giovani in questo mare di incertezze e dopo anni di studio mi sembra più che doveroso
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