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Quando s’invoca il cosiddetto islam moderato – e quasi sempre si usa la parola “moderato” in un’accezione puramente eurocentrica – quasi sempre ci si immagina interlocutori astratti modellati a nostra immagine e somiglianza. Tale immaturità culturale determina un pericoloso assottigliamento del campo degli interlocutori, poiché in Occidente si pretende che gli islamici moderati siano, appunto, moderati alla maniera occidentale, e dunque laici, pluralisti, democratici e liberali.
Anziché cercare nel mondo musulmano interlocutori con i quali instaurare un dialogo a partire da alcuni fondamentali comuni denominatori – che poi non sarebbe altro che l’ennesima declinazione del dovere etico-politico del “male minore” – non si fa altro che demolire tutti i nemici musulmani del terrorismo islamista cercando nelle loro parole, con zelo irresponsabile, aspetti poco democratici, o poco laici, o poco occidentalisti.
Questo pericoloso purismo democratico-culturale determina due effetti nefasti: da un lato un impoverimento del concetto di alterità e di “diversità”; dall’altro, una pericolosa solitudine degli islamici moderati, e dunque un rafforzamento degli estremismi.
Prendiamo il caso di Ahmed al-Tayeb, Grand Imam di al-Azhar del Cairo, la più importante università e moschea del mondo sunnita. Nei mesi scorsi è stato duramente criticato, in specie dalle destre più marcatamente “fallaciane”, per aver detto che i terroristi dell’Isis dovrebbero “essere uccisi e crocefissi”.
Le critiche ad al-Tayeb erano ben motivate da un’intervista concessa alla rivista “Formiche” dal giornalista esperto di Medio Oriente Carlo Panella. Alla precisa domanda di Michele Pierri (“La condanna dell’università cairota al-Azhar alle violenze dell’Isis rappresenta uno spartiacque nel mondo islamico?”) Panella rispondeva: «No, al contrario. Non era nemmeno la prima volta che il jihadismo veniva condannato, ma il tema è un altro. Il Grand Imam del centro teologico ha detto che i jihadisti del Califfato andrebbero crocefissi e bisognerebbe tagliare loro le mani e i piedi. Parole che dimostrano come non esista affatto un islam moderato e che la sua risposta all’estremismo non è poi così diversa dai metodi da chi si dichiara di voler combattere».
Eppure al-Tayeb è lo stesso che, all’indomani degli attentati parigini dello scorso 13 novembre, ha espresso «profonda condanna degli assurdi attacchi terroristici a Parigi a nome dell’Islam che è innocente sul terrorismo».
Una dichiarazione non di poco conto, visto che il Grand Imam del Cairo può essere considerata la massima autorità dell’Islam sunnita. Evidentemente una parte cospicua dell’intellighenzia occidentale è disposta a rinunciare ad alleati e interlocutori nel mondo islamico per la sola ragione che non sono perfettamente allineati ai nostri “valori”.
Capitò ieri per Hosni Mubarak – rimpianto da tutte le diplomazie responsabili – e capita oggi per Bashar al-Assad. Pur di non “chiudere un occhio” – la politica è anche l’arte di saper chiudere un occhio – si preferisce rifiutare in blocco la mano tesa dei nemici “in loco” dei terroristi.
È come se Churchill, anti-bolscevio di ferro, avesse rifiutato l’anti-nazismo di Stalin in ragione dei suoi “valori”, permettendo così al nazismo di rafforzarsi e di mangiarsi l’intera Europa.
Ai cosiddetti islamici moderati non possiamo chiedere di essere allineati con il nostro impianto culturale laico e liberale, né di risolvere ad horas il tema della simmetria imperfetta tra Corano e Stato o, detto in altri termini, tra Islam e democrazia. Ogni dialogo deve partire dall’accettazione tollerante e paziente delle alterità storiche e culturali e dalla condivisione di almeno un obiettivo chiaro e irrinunciabile: indebolire e isolare il terrorismo e l’estremismo ideologico islamista.
Ma se si affronta il terrorismo con la guerra militare e l’islam moderato con diffidenza e con alterigia, il rischio è di radicalizzare quella che Samir Kassin definiva “l’infelicità araba”, e dunque la solitudine di un mondo in maggioranza pacifico ma combattuto psicologicamente tra le inopportune richieste di abiurare e la tentazione di un ethos del sangue e di una oscura tradizione visionaria e palingenetica.
L’Occidente dimostri di essere responsabile fino in fondo e provi a ritrovarsi almeno su questo minimo comune denominatore strategico: riconoscere nel Grand Imam Ahmed al-Tayeb la voce più importante e autorevole del mondo musulmano.
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