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POTENZA – «Mamma, cos’è quest’odore secondo te?». «Fogna». Cronache quotidiane dalle scale mobili. Qui ci troviamo, qualche giorno fa, alla penultima rampa dell’impianto che collega via del Popolo e via Marconi. Orario di ingresso a scuola. Il tanfo (in quel tratto) è un marchio di fabbrica ben più immutabile della sporcizia (ovunque), problema che magari prima o poi sarà risolto (?). Il puzzo chissà. Nelle viscere di Potenza, diciamo l’intestino crasso per rimanere in ambito olfattivo mentre quello tenue (ponte attrezzato) è stato asportato nel senso che è fuori servizio, scorrono in modo altrettanto perpetuo i rivoli d’acqua piovana con una portata direttamente proporzionale all’intensità della pioggia. L’umidità invece non conosce le mezze stagioni e in più di un punto le scale in marmo – l’equivalente delle corsie di sorpasso – segnalano il rischio scivolamento. I muri si coprono di muschi ossianici e producono quella particolare muffa mista a calce che dona al tutto un’impronta quasi natalizia spalmandola però sui 12 mesi.
Siamo in un non luogo dove un timbro metallico, come fosse il Grande Fratello orwelliano dotato di voce alla Ed Harris versione Cristo in “Truman show”, talvolta richiama le scolaresche intente in lieti inseguimenti finalizzati forse a ribaltare il luogo comune di Potenza-città-più-triste-d’Italia. O del mondo? «Non si corre sulle scale!». «Attenti ai bambini!!». «Sui gradini uno alla volta!!!». La voce senza un’anima ritorna stentorea in corrispondenza degli orari di chiusura degli impianti, implacabile e soprattutto puntuale come nessun altro servizio cittadino (per fare un esempio, nel libro di Luca Lancieri presentato venerdì si dice a un certo punto che «aspettare un autobus a Potenza è come prevedere i terremoti»).
L’intestino di Potenza offende anche la memoria stessa del capoluogo, proprio nel sacrario de-sacralizzato della lapide ipogea che dimentica – ricordandolo – il dramma del terremoto 1980: il vetro che protegge l’iscrizione è perennemente appannato. Causa umidità, naturalmente.
Macchinette punzonatrici decostruite che mostrano le proprie interiora quasi umane benché meccaniche. Tornelli utilizzabili in entrambi i sensi e dunque paradossali come un quadro di Escher. Se non fosse che si tratta di disservizi, si potrebbe pensare di riconvertire queste perle in Museo all’Aperto dell’Insolito (“Mai”: e il nome non sarebbe fuori luogo).
Biglietterie sbarrate da manifesti di mostre micologiche o pretenziosi cartelli Potenza 1806. I pochi cestini trasformati in mini-discariche. Rampe che conducono a schermi spenti. “Gabbiotti” spesso sguarniti causa ridimensionamento del servizio, bagni inagibili (un peccato, nel bellissimo e colorato tratto che conduce da via Nazario Sauro alla stazione dei treni). Nella normalità di utenti portoghesi-genovesi incolpevoli, c’è addirittura qualche “ultimo giapponese” che si aggira in cerca di chiarimenti sui biglietti, in questo clima spettrale dentro il quale comunque continua a pulsare la vita di tutti i giorni con i suoi sorrisi e dialoghi e telefonate, cuffiette per estraniarsi ancora di più dal Brutto e dita che compulsano tastierine nel flusso della messaggistica, milf con tacco 12-15 a sfidare le avvertenze (attenzione anche agli abiti lunghi, si potrebbero impigliare!), ragazzi neri che cantano “Get up stand up” sul sottofondo radiofonico perenne perché poi non è vero che i potentini vogliono infliggersi tutta questa tristezza: persino un’azienda che sfiorisce dietro il dissesto del Comune sente il bisogno della musica, come quella nobile decaduta che ogni mattina davanti allo specchio si scopre sempre più sciatta e rugosa eppure continua a mettere un filo di rossetto.
L’orario di apertura delle scale mobili (7,30-15,45 e 17-20,45 fino al 19 novembre; orario continuato 7,45-20,15 dal 20 novembre) è un’offesa all’operosità di un capoluogo che si bea – giustamente – di voler essere il vagone a traino del rutilante mondo futuribile datato 2019. La città slow si scopre una specie di metropoli, con l’approssimarsi di quella doppia dead-line: i potentini infatti diventano milanesi in prossimità degli orari di chiusura, il passo si raddoppia e spesso sfiora la marcia, si registrano insoliti sorpassi e «permesso, devo scappare».
E cosa succede nelle viscere umide e maleodoranti dalle 20,16 alle 7,44? Le porte che si chiudono fanno svolazzare le foglie miste a sacchetti di patatine e cartacce mentre le luci della città filtrano livide e arancioni da fuori, tra i rami e i palazzi. Idee per un film o un libro noir.
«Benvenuto 2013!» segnalava fino a pochi giorni fa un display nello snodo di piazza XVIII Agosto. Il fatto che quel messaggio sia stato cancellato fa addirittura sperare che con l’anno nuovo tutto si riallineerà, umidità e miasmi spariranno e l’orario di apertura si dilaterà regalando tempi e qualità della vita da capoluogo. Leggeremo mai un «Benvenuto 2016»? Nel caso, ci troveremmo in un film fantascientifico.
e.furia@luedi.it
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