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POTENZA – «La libera uscita è una cosa bellissima. Dopo una giornata di fatica, saluti la tua brava sentinella e vai a Potenza. Sudi sette camicie da fatica con colletto da libera uscita, ma in compenso sei felice, perché potrai vedere qualche faccia nuova che non sia quella dei tuoi colleghi o superiori. Tant’è vero che, appena in Via Pretoria, ti incontri ogni due passi con tutto lo Stato Maggiore…», e così nei caffè e nei cinema. Esattamente ottant’anni fa, scriveva già col sarcasmo che conosciamo Giovannino Guareschi da allievo ufficiale di complemento nella Caserma Lucania nel biennio 1934-35. L’autore di “Don Camillo” fu in stanza con Guido Carli, cui oggi è intitolata la Luiss: una curiosità da inserire nel filone “da Potenza, quelli importanti ci sono passati tutti”.
Il futuro governatore della Banca d’Italia fu suo amico negli anni in cui il podestà Andretta faceva pavimentare via Pretoria e il vescovo Bertazzoni affrescare le pareti della cattedrale dal torinese Mario Prajer: gli anni – in una città di provincia ma con visioni da grande città – in cui c’erano già due cinema (la Sala Roma e il teatro comunale “Stabile”) e altrettanti alberghi (il “Lombardo” del commendatore Giovanni Boccia e il “Modern hotel” di Pecoriello, immortalato proprio in uno scatto di Guareschi con tanto di calesse davanti all’ingresso).
In quella simpatica cronaca della passeggiata a Potenza, i «camerati cappelloni» lo ossessionano «in tutti i buchi del creato» e anche nella sosta «in uno di quei salotti in cui si sa come si va dentro, e non si sa mai come si viene fuori»: non gli resta che precipitarsi «come una valanga giù per la discesa del ritorno», lasciandosi alle spalle la città disegnata nel suo squadrato e puntuto skyline, e rifugiarsi in bagno per un momento di agognata solitudine. Forse.
Lo stile dissacrante è lo stesso che mosse Guareschi a “manomettere” i francobolli con insert di carta a tema Candido – la sua rivista –, caricature di carabinieri o addirittura il marchio Simmenthal bypassando i controlli delle Poste che puntualmente timbravano gli annulli: di un periodo successivo al soggiorno potentino, questi esemplari sono anch’essi riprodotti ed esposti nella mostra “Giovannino Guareschi racconta Potenza” organizzata nei locali di vico F. De Rosa 6 dal circolo culturale Gocce d’autore, in collaborazione con l’associazione filatelica culturale “Isabella Morra”.
Prima degli antropologi e degli etnografi come Ernesto De Martino, Cartier Bresson e Arturo Zavattini, con la sua Voighländer Guareschi scattò fotografie di vita vissuta, lontane dall’oleografia delle cartoline d’epoca con cui il regime offriva il volto migliore – e spesso artefatto – delle città. Né denuncia né critica né superiorità da settentrionale, solo la curiosità e una voglia spontanea di dare protagonismo a quella che Eva Bonitatibus, presidente di Gocce d’autore, ha giustamente definito «dignitosa povertà».
Ma più che i volti, gli organizzatori della mostra suggeriscono di fare attenzione agli sfondi, scorci in bianco e nero che restituiscono una realtà comune a molte città meridionali dell’epoca. Ristrettezze ma anche operosità, facce rugose provate da freddo e miseria eppure serene.
Si è trasformato in potentino, Guareschi, intrufolandosi nei capannelli della domenica in zona Portasalza (è il 3 febbraio ’35) oppure mettendosi accanto a due guardie davanti alle locandine dei film (“La principessa della Czarda” e “Il re dell’arena”, intermezzati dal giornale Luce e da “I tre porcellini”); annotando come gli uomini con tabarro gli ricordino i suoi amici della “Bassa” e un pastore in pieno centro una statuetta del presepe; dando la dignità di un primo piano alla contadina, alla venditrice di latte o alla anziana che raccoglie l’acqua alla fontana; spingendosi a giocare al meta-linguaggio inquadrando da lontano una fotografa ambulante in uno slargo del centro storico. Ci sono molte donne, infatti, in questa trentina di foto della Potenza che fu, immagini che già allora gli sembrano «ricordi di un secolo fa». E poi i bambini: la didascalia a penna “L’infanzia negata” racconta con amarezza e assieme dolcezza la grigia desolazione dei trenta piccoli ospiti del brefotrofio, alcuni dei quali ritratti nella loro omologazione estetica fatta di crani rasati e grembiulini bianchi in un accenno di saluto romano: il giovane allievo Guareschi, nel fotografarli, si è chinato per coglierne l’essenza alla loro stessa altezza. Non può mancare la chiesetta di Santa Maria, adiacente alla caserma. Altri scatti per il carcere e il nuovo mercato, il «pizzardone» con pennacchio davanti a una bellissima insegna “Sigari”. Chi vuole, può addirittura azzardare una partita a “quello lo conosco!” tentando magari di rivedersi in uno dei volti con cui Guareschi racconta la comunità dell’epoca.
Di Guareschi si ricorda spesso l’anticomunismo, ma in queste immagini c’è un afflato che probabilmente animerà la caratterizzazione del suo personaggio più celebre: e non è un caso che Papa Francesco, tre giorni fa, lo abbia citato nel discorso alla Chiesa italiana riunita a Firenze: «Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente», ha detto Bergoglio inserendosi alla perfezione nel solco di una “fortuna” letteraria e per così dire teologica in cui bisogna citare altri due precedenti famosi, e cioè Benedetto XVI che citò Don Camillo nel libro intervista “Luce del mondo” e Pio XII che – come si legge ne “Il vero volto di Don Camillo. Vita & storia di Fernandel” di Fulvio Fulvi (edizioni Ares) – volle conoscere l’attore francese Fernandel. È come se Don Camillo fosse entrato nel magistero, ha scritto il vaticanista della Stampa Andrea Tornielli.
Traspare infine un suo amore sincero per la città, nonostante quel primo piano con didascalia “Finalmente!” a celebrare la fine del periodo lucano: senza i baffi dell’iconografia che lo ha reso immortale, Guareschi saluta così la sua fonte d’ispirazione. “Ninol” firmò a Potenza anche “L’epistolario amoroso del soldato Pippo” (nove lettere alla fidanzata) nella rivista Macpizero redatta in caserma, la stessa da cui è tratto il racconto illustrato dello “struscio” in centro nel giorno di libera uscita. Un quadretto di vita potentina gustoso e originalissimo. Oltre che d’autore.
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