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POTENZA – «Sono esterrefatta, mi hanno condannato (…) Tempo addietro avevamo chiesto il trasferimento del processo in altra sede…»
Ha affidato a facebook il suo sfogo e le sue recriminazioni la professoressa Albina Colella, ieri pomeriggio qualche ora dopo la condanna del Tribunale di Potenza a 9 anni per concussione e peculato.
Decine i messaggi di solidarietà e di vicinanza pubblicati sulla bacheca della geologa, che negli anni scorsi ha acquistato molta notorietà per le sue campagne affianco dei movimenti no-triv,
«Io – ha aggiunto per spiedare la sua incredulità – che ho fatto di tutto per non arrecare danni all’Università e alla Regione, per non far perdere il cofinanziamento europeo del progetto a seguito dei gravissimi ritardi nelle anticipazioni e nella spendibilità dei soldi. Io che ho fornito prodotti aggiuntivi non finanziati dalla Regione Basilicata per 260 mila euro, tanto da avere il plauso dell’Autorità di Bacino della Basilicata per la grande mole di dati forniti. Io che mi sono presa cura, come consegnatario e responsabile dei beni, del vecchio gommone del laboratorio di geologia marina, che aveva bisogno di tutela continua quando non c’erano tecnici nel centro di geodinamica-dipartimento.
Molto più conciso era stato all’uscita dall’aula il suo difensore, l’avvocato Leonardo Pinto.
«Riteniamo la sentenza – ha dichiarato ai giornalisti – non rispondente all’esito dell’istruttoria dibattimentale e la stessa sarà oggetto di impugnazione su elementi oggettivi che escludono la sussistenza dei reati contestati».
Durante la sua arringa il legale ha sostenuto con forza l’innocenza della sua assistita, nonostante «il patto scellerato» stipulato tra lei i suoi ricercatori sui compensi per la collaborazione al progetto sulle risorse idriche della Val d’Agri.
«La Regione Basilicata si è provocata da sola un danno per la gestione sbagliata di queste risorse europee, e non può dire che a causarlo sia stata la professoressa Colella». Ha dichiarato l’avvocato. «Avevano loro l’obbligo di verificare la rendicontazione del progetto».
Pinto ha ricordato che l’inchiesta nacque da una denuncia dell’ex rettore dell’Unibas Antonio Tamburro, in un’ambiente accademico permeato da logiche molto particolari, e non poca «cattiveria».
«Prima di avviare il progetto – ha proseguito – la professoressa ha contattato i 3 ricercatori, nell’autunno del 1999, e hanno stabilito determinati compensi. In quell’occasione ha rappresentato loro i termini ristretti per la conclusione dei lavori, a pena di perdere parte del finanziamento e di responsabilità penali ed erariali notevoli. Per questo si sono accordati che una parte dei loro compensi sarebbe stata accantonata per completare comunque la ricerca, anche dopo la scadenza del termine di rendicontazione, attingendo a quella riserva. Ma non c’è stata nessuna imposizione. Nessuno è andato con la pistola in mano da questi ricercatori a chiedere i soldi tant’è vero che nessuno di loro ha denunciato».
Quanto all’accusa di essersi appropriata del gommone dell’Università, l’avvocato ha evidenziato con molta enfasi che si trattava di un bene inventariato dall’ateneo. «Come tanti altri, ad esempio le serre qui a Potenza, che si trovano fuori dai locali dell’Università affidate ai ricercatori. Come tanti rilevatori sparsi sul territorio».
Le motivazioni della sentenza sono attese entro 45 giorni.

l.amato@luedi.it

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