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Non voleva parlare del suo passato Papà Beat (all’anagrafe Antonio Di Spagna). Era un capitolo della sua vita che riteneva chiuso. Definitivamente.

Ma di tanto in tanto faceva qualche eccezione. E pochi mesi prima che si ammalasse, nel raccontarmi un piccolo episodio dei suoi trascorsi giovanili nelle fila di “Mondo beat” , all’improvviso se uscì con la frase: “Se noi custodiamo un ideale, quell’ideale custodirà noi”. Per Papà Beat è stata la libertà il suo ideale. E sulla libertà questo ex-ribelle, che aveva portato capelloni, camice a fiori e pantaloni sdruciti, ha confezionato tutta la sua esistenza.

E’ morto qualche giorno fa a settantaquattro anni per il solito male che non lascia tregua, da moltissimo tempo era ritornato nella sua Sarconi, ma per ritrovare il personaggio Papà Beat bisogna srotolare la pellicola del tempo, fermarci agli inizi degli anni sessanta quando – congedatosi coi gradi di ufficiale dell’esercito (vi era entrato volontario ancora minorenne) – arrivò a Milano ed incontrò in un bar della Metropolitana Gerbino Melchiorre, un giovane siciliano trapiantato nel capoluogo lombardo dopo un breve trascorso nell’underground svedese, e Vittorio Di Russo, uno scultore di Latina che era ritornato dall’Olanda dopo essere espatriato clandestinamente.

Con loro strinse una fraterna amicizia, i tre ragazzi avevano idee comuni e sognavano un mondo nuovo. La società costruita sulla rincorsa al benessere non rientrava nei loro ideali, creava troppe disparità , mentre la politica dei partiti (compresa quella del Partito Comunista) la sentivano distante dal loro spirito libertario e critico.

E così sulla spinta dei beat statunitensi e dei provos olandesi diedero vita, insieme ad altri ragazzi, alla loro comunità dei “beatnik” (i capelloni), una specie di famiglia allargata che si distinse per un modello ameno di vita ed esteticamente per la zazzera lunga e il vestiario sciatto.

In poco tempo Papà Beat diventò uno dei leader del movimento su cui, nel frattempo, aveva iniziato a mettere gli occhi addosso la stampa di regime, mentre la polizia vedeva in quei giovani una minaccia, uno scandalo per la Milano borghese e perbenista, ruffiana e clericale. Papà Beat e i suoi compagni per propagandare la loro “profezia” di società non autoritaria e contraria alle guerre fondarono “Mondo beat“, un foglio ciclostilato molto letto che solo a Milano riusciva a vendere sulle ottomila copie.

Nel cortometraggio “Il mondo di Papà Beat“, realizzato nel 2012 da Vincenzo Galante, il Nostro racconta dei cortei che davano vita nelle strade del centro di Milano per l’affermazione dei diritti civili, della difesa dell’ambiente e della libertà sessuale. I beatnik portavano striscioni sui era scritto: “I capelli lunghi non sono anticostituzionali“, “Basta con i soprusi“, “Meglio un beat oggi che un soldato domani”. In una manifestazione del 7 marzo 1967 Papà Beat venne pestato dalla polizia, finì piantonato in ospedale per trauma cranico.

Una volta dimesso fu portato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale, rimase detenuto per due settimane, Nel processo riuscì a dimostrare di essere stato vittima della violenza delle forze dell’ordine e fu risarcito con un’alta somma di denaro (qualche milione di lire) che poi donò in beneficenza. In quegli anni milanesi incontrò noti giornalisti, scrittori, artisti, tra gli altri conobbe l’editore Gian Giacomo Feltrinelli, Dario Fo, Franca Rame, Camilla Cederna.

Nella stessa primavera del 1967 fu il promotore di una grande tendopoli (i giornali la chiamarono “Barbonia City”) alzata in un terreno di via Ripamonti e pensata per dare riparo a tutti quei ragazzi senza un tetto che frequentavano la “cava“, sede di “Mondo beat.

Sarà questa iniziativa il canto del cigno dell’attivismo dei “capelloni“, mentre andava aprendosi la strada la rivolta studentesca del ‘68 che sposava controcultura e alcune battaglie civili dei movimenti precedenti. Papà Beat si separerà dai compagni di militanza, abbandonerà Milano per altre destinazioni dell’Europa, ma non smetterà di praticare l’ideale della libertà per il resto della sua esistenza.

La storia avrà sconfitto l’orizzonte di “Mondo beat” di una società più giusta e senza guerre (scrisse il poeta Allen Ginsberg: “Di tutti i beatnik del mondo, quelli che mi fanno più tenerezza sono quelli italiani, perché si battono per qualcosa che, nella migliore delle ipotesi, riusciranno a vedere soltanto i loro figli”), ma la storia personale di Papà Beat non ha mostrato segni di cedimento, l’ex-figlio dei fiori di Sarconi che aveva cercato con coraggio il “Paradiso in terra” si è tenuto stretto il sogno della libertà e da quell’ideale si è lasciato proteggere.

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