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POTENZA – Dovrà scontare 16 anni di reclusione il 22enne Antonio Cassotta, figlio del più noto boss di Melfi trucidato a luglio del 2007.
Lo ha deciso ieri pomeriggio il gup di Potenza Tiziana Petrocelli, accogliendo la richiesta avanzata dal pm antimafia Francesco Basentini.
Cassotta è accusato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga e ha goduto dello sconto di pena di un terzo per la scelta del rito abbreviato altrimenti la condanna avrebbe raggiunto i 24 anni di reclusione.
Il gup ha condannato a pene molto inferiori, 5 anni e 4 mesi per entrambi, i pentiti Alessandro D’Amato (44) e Saverio Loconsolo (36).
Ma ha mostrato “comprensione” anche per il fratello minore di Alessandro, Dario D’Amato (32), condannato a 6 anni e 8 mesi dopo la confessione in videoconferenza, e l’annuncio di aver intrapreso a sua volta un percorso di collaborazione con la giustizia. Mentre ha rinviato a giudizio tutti gli altri imputati, incluso il solo, Antonio Cardone (24) che aveva chiesto un patteggiamento (rigettato).
Si tratta di Walter Anastasia (26), Giovanni Ardoino (34), Luigi Bellino (41), Lucio Cacalano (37), Claudio Caggiano (41), Giuseppe Caggiano (26), Franco Calabrese (46), Alessandro Cassotta (28), Massimo Cassotta (43), Mirko D’Anghela (23), Alfonso Damiano (35), Antonio Del Fonso (40), Rocco Del Fonso (40), Andrea Della Spina (30), Umberto Diaferia (28), Vincenzo Donadio (25), Pasquale Faina (37), Alberto Luciano Franco (56), Guerino Garofalo (24), Antonio Gaudiosi (34), Giuseppe Giuliano (37), Luciano Grimolizzi (40), Francesco Grosso (23), Gerardo Ioanni (38), Fabio Irenze (22), Marcello Irenze (27), Renzo Loccisano (48), Giuseppe Mairro (23), Antonio Mancini (33), Patrizia Mascolo (23), Giuseppe Minniti (48), Abdelkebir Moukhtari (25), Claudio Morano (49), Michele Morelli (35), Evelyn Moscariello (45), Pasquale Mossucca (44), Pasquale Nicoletti (32), Gerardo Nigro Di Gregorio (29), Cristian Pagliuca (24), Miguel Pastore (51), Antonio Patanella (32), Giuseppe Patanella (34), Saverio Riviezzi (51), Graziano Ruberto (21), Lorenzo Sapio (28), Sabino Sapio (36), Mauro Savino (26), Roberto Sinigaglia (29), Antonio Stefano (40), Luigi Tartaglia (31), Salvatore Todisco (31), Simone Tuccella (35), Mattia Viglioglia (21) e Vincenzo Vital
Per loro il prossimo 8 febbraio inizierà il dibattimento davanti ai giudici del collegio A della sezione penale del capoluogo, dove dovranno rispondere a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, spaccio, estorsione e favoreggiamento.
L’inchiesta è quella per cui Antonio Cassotta era già finito in carcere a ottobre dell’anno scorso, sugli affari “stupefacenti” delle nuove leve della costola melfitana dei vecchi “basilischi” e i pignolesi del clan Riviezzi. Un’asse criminale ricostituito, come agli inizi degli anni ‘90 quando avrebbero messo a segno rapine le rapine nelle gioiellerie di mezza Basilicata.
L’accusa è di aver messo in piedi nel Melfese una consolidata rete di spaccio di stupefacenti, con una precisa suddivisione del territorio e l’utilizzo di persone per la vendita diretta della droga, che in alcuni casi usavano anche esercizi pubblici come «deposito» e locali per lo scambio di cocaina, hascisc e marijuana.
Assieme a Cassotta erano finiti in carcere Giuseppe Caggiano, Fabio Irenze e Lorenzo Sapio. Mentre per Vincenzo Donadio, Antonio Cardone, Giovanni Battista Ardoino, Sabino Sapio e Teodoro Gabriele Barbetta il gip aveva disposto gli arresti domiciliari.
La droga veniva acquistata in diverse grandi «piazze» nelle regioni limitrofe, tra Campania, Puglia e Basilicata, e poi distribuita agli spacciatori locali dal vertice dell’organizzazione. Ma nel registro degli indagati sono finiti anche il titolare del bar Polo Nord di Melfi (Miguel Pastore) e uno dei gestori del Marley pub di Rionero, Patrizia Mascolo, accusati di aver fatto da intermediari in alcune cessioni di cocaina.
Le indagini sono cominciate nel 2012, grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti, poi si è scoperto che il giro di cocaina lungo l’asse Melfi-Pignola era ancora attivo e una parte dei proventi andava alle famiglie dei detenuti. Ma non sono mancati «screzi» tra i due gruppi sulla suddivisione degli introiti da destinare a questo scopo, tant’è che il gip parlava dell’esigenza dei giovani Cassotta «di affrancarsi dal gruppo dei pignolesi (definiti “pagliacci”) ritenuti non affidabli per instaurare un rapporto diretto con esponenti della malavita calabrese».
Anche l’altro canale già attivato, Lorenzo Sapio, non bastava per soddisfare le mire del giovane Cassotta. Ma sempre con l’autorizzazione dello zio, Massimo Cassotta, considerato il nuovo capo del clan anche se da tempo detenuto.
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