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POTENZA – Ha vinto un concorso alla Asp, nel 2005, per un posto da funzionario-avvocato. Ma nel 2008 ha sostenuto che le domande della selezione fossero identiche a quelle di un esame per dirigenti. Le è stato riconosciuto il nuovo inquadramento. E 7 anni dopo la vicenda finirà davanti alla Corte dei conti, dove i vecchi vertici e il collegio di conciliazione dell’azienda sanitaria di Potenza rischiano di essere condannati a pagare 150mila euro di differenze di retribuzione.
Dovranno comparire martedì nell’aula di viale del Basento: Luciana Iannielli, assistita dall’avvocato Luciano Petrullo; Domenico Buscicchio, assistito dall’omonimo Giuseppe; Gabriella De Franchi, assistita da Filomena Orlando, Pasquale Amendola, assistito da Vito Iorio, Antonietta Montanarella, assistita da Elmina Latella e Mario Marra, assistito da Gerardo Pedota.
Al centro c’è il caso di una dirigente che oggi presta servizio come “esterno” alla presidenza della giunta regionale, Maria Pia Lavieri: già archiviato nel 2010, dopo le denunce «sia in forma anonima che da associazioni sindacali», e riaperto l’anno scorso quando la procura regionale della Corte dei conti ha ricevuto un nuovo esposto a riguardo.
Per il procuratore Michele Oricchio «non vi era alcuna giuridica possibilità di poter riconoscere la qualifica dirigenziale all’avvocato Lavieri in virtù del concorso superato». Quindi «tutto il procedimento innescato dal tentativo di conciliazione» sarebbe stato «artatamente finalizzato ad aggirare specifici dettami normativi attraverso la compiacente condotta di tutti i soggetti in questa sede attenzionati».
Il perché lo spiega per punti.
In primis perché «nessuna norma di legge impone che gli avvocati di enti pubblici debbano essere dirigenti». E il concorso superato dalla Lavieri «era espressamente bandito per la funzione di “collaboratore tecnico-professionale esperto-avvocato ds”» prevista dalla pianta organica dell’Asl di Potenza approvata l’anno prima.
Inoltre «la creazione di una nuova funzione dirigenziale non prevista in dotazione organica, con i connessi ulteriori oneri finanziari, rientrava in una facoltà dell’amministrazione non libera ma vincolata al rispetto, platealmente non avvenuto nel caso di specie, di una procedura complessa».
Di qui la convizione che la conciliazione effettuata, di fronte alle richieste della Lavieri, costituisca un altrettanto «plateale esempio di abdicazione da parte dell’ente pubblico alla cura degli interessi economici e giuridici ad essa commessi dalla legge».
«Non è corretto alcun riferimento normativo e giurisprudenziale ivi riportato – tuona il procuratore – e si richiamano addirittura le materie previste per il concorso a funzionario per ritenere che le stesse valgano anche per l’accesso a una qualifica dirigenziale, dimenticando che tale qualifica non era prevista in pianta organica per il ruolo di avvocato e non costituisce una semplice mansione superiore».
Il pm smonta anche la delibera dei vertici della Asp che nel 2009 avevano detto sì alla conciliazione sulla base di un parere che paventava proprio possibili responsabilità erariali a carico loro, ma nel caso in cui non avessero riconosciuto l’inquadramento superiore all’avvocato Lavieri.
Parla di «pervicace volontà di favorire la predetta nel più assoluto e doloso dispregio del canone di efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa».
Ribadisce il concetto più volte: «Il complesso delle attività gestorie testé sintetizzate poste in essere per garantire alla Lavieri l’accesso illegittimo alla lucrosa carica dirigenziale connota l’attività degli odierni invitati probabilmente come dolosa o, almeno, gravemente colposa ed è fonte di responsabilità amministrativa».
Quindi la stima del danno «pari a quanto spettante alla predetta quale avvocato-funzionario e quanto corrispostole quale avvocato-dirigente».
L’unico a salvarsi, finora, è stato Giuseppe Cugno, assistito dall’avvocato Dino Donnoli.
Martedì le discussioni di tutti gli altri.
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