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POTENZA – Condannata per la morte della madre in un tragico incidente stradale. E’ la sorte toccata a un’impiegata del Comune di Matera che è stata giudicata colpevole di omicidio colposo 5 anni dopo lo scontro letale con un albero sulla provinciale che dalla città dei Sassi porta a Bernalda, all’altezza del colle Timmari, nei pressi dell’agriturismo Masserie del Parco.

Nei giorni scorsi i giudici della Corte di cassazione hanno confermato il verdetto della Corte d’appello di Potenza. Una sentenza inattesa, dopo la prima decisione del gup di Matera, che aveva assolto la donna in rito abbreviato.

Secondo l’accusa il 14 luglio del 2010 la donna era alla guida della sua vecchia Ford Fiesta bianca del 1994, mentre la madre era seduta sul sedile del passeggero, quando a causa dell’«eccessiva velocità» ha perso il controllo dell’auto in una curva a sinistra. Quindi «dopo aver invaso l’opposta corsia di marcia andava dapprima ad urtare un albero che era collocato sul limitare della strada, quindi compiva due rotazioni in senso antiorario e si arrestava in una cunetta a sinistra della carreggiata».

Madre e figlia erano state proiettate fuori dall’abitacolo «nella fase di movimento incontrollato del veicolo», subito dopo l’urto con l’albero. Ma ad avere la peggio era stata la prima, nonostante il trasporto d’emergenza in eliambulanza a Matera, dove è morta poche ore più tardi.

Due anni dopo i giudici della Corte d’appello di Potenza avevano condannato la figlia per «aver omesso (…) di esigere che la passeggera indossasse le cinture di sicurezza». Essendo stata «sbalzata all’esterno dell’autovettura a seguito della collisione di questa con l’albero (…) anche in ragione dell’omesso utilizzo del dispositivo».
Di qui il ricorso in Cassazione proposto dall’avvocato Nicola Cea, tutt’altro che convinto di questa ricostruzione sulla base delle testimonianze raccolte e della perizia disposta dal consulente tecnico dell’accusa. Elementi che incrociati lascerebbero pensare che le donne indossassero le cinture al momento dell’urto con l’albero, e solo in seguito sia successo qualcosa per cui hanno smesso di funzionare.

Gli ermellini di piazza Cavour hanno riconosciuto una «non corretta valutazione» di quanto dichiarato da uno dei presenti, ma lo hanno degradato a questione secondaria, da cui «non é possibile trarre le conseguenze che auspicherebbe l’esponente, il quale fa perno anche su quello per dare corpo all’ipotesi che le cinture di sicurezza fossero state indossate dalle occupanti del veicolo».
«La macchina ha roteato e lì secondo me prima é uscita la figlia e poi la madre …» Così il teste sentito dagli investigatori qualche ora dopo l’incidente.

Ma sullo stato delle cinture di sicurezza hanno riconosciuto la validità di quanto affermato dai giudici di secondo grado, per cui non erano state utilizzate «in ragione della circostanza che le stesse erano state rinvenute, appena dopo il sinistro, “in posizione inattiva e prive di segni denotanti un traumatico collasso o un’apprezzabile anomalia” (…) Sicchè, l’ipotesi che le due donne fossero state sbalzate dal veicolo nella fase di rotazione dello stesso a causa della apertura delle cinture di sicurezza provocata dall’urto con l’albero é puramente congetturale».
L’affermazione per cui la figlia «era venuta meno all’obbligo giuridico di esigere che la passeggera del veicolo da lei condotto indossasse la cintura di sicurezza – prosegue la Cassazione – sfugge alle censure di contraddittorietà e di manifesta illogicità».
Oltre al rigetto del ricorso la Corte ha condannato la donna anche al pagamento delle spese processuali.

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