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POTENZA – Il primo impatto con la città è stato attraverso il ponte Musmeci. «Un’esperienza incredibile, che ha dell’incredibile». Hélène Binet è una fotografa di fama internazionale, specializzata in architetture contemporanee e dedita al paesaggio. Nel suo portfolio – pluripremiato ed esibito in ogni angolo del mondo – ci sono le forme di Daniel Libeskind, Studio Mumbai, Peter Zumthor, Zaha Hadid. Cemento piegato all’architettura, non viceversa.
Ha fatto tappa a Potenza per un sopralluogo al viadotto Basento, progettato da Sergio Musmeci e realizzato tra gli anni Sessanta e Settanta. Il ponte di Potenza è stata la prima opera infrastrutturale sottoposta a vincolo monumentale in Italia. Lo fotograferà per un volume dedicato alla struttura, firmato da Victor Jones, professore presso la University of Southern California.
Un bello spettacolo il ponte Musmeci, vero?
«Credo sia molto importante rivalutare quest’opera, porvi attenzione. Ultimamente in architettura le forme si sono liberate: con le linee si possono fare velocemente molte cose, realizzare opere. Ma questo ponte è diverso, rappresenta lo studio, la ricerca, il lavoro. Per questo il ponte di Sergio Musmeci va studiato: mostra tutta la ricerca che si porta dietro».
Eppure non è così conosciuto, non sul territorio. Discuterne può bastare?
«La cosa più importante è poter portare le persone a vivere questo spazio così unico. È uno spazio bello come pensiero, come giardino, come area. Potrebbe essere messo a disposizione di così tante persone».
Da dove cominciare?
«Credo sia utile poter parlare di questi luoghi utilizzando ogni mezzo e strada, festival, mostre, libri. Serve aprire un discorso, discuterne, farlo qui, ma anche altrove».
Una fruizione ampia, non solo per studiosi.
«Penso che oggi potrebbe essere amato soprattutto dai più giovani per come si presenta. È una struttura che di pesante – nel senso più comune del termine – non ha nulla, anzi: è un’opera che libera energia. Ecco, questo posto è un’opportunità che non si deve perdere».
Magari da mettere in collegamento con gli scenari che offre Matera, capitale europea della cultura 2019.
«Sarebbe importante, per esempio, parlarne per incuriosire anche quanti sono nella Città dei Sassi. Bisogna cominciare dall’aprire le possibilità di fruizione, allargando il pubblico potenziale, quello dei cittadini, degli appassionati, non solo degli specialisti».
Ci descrive questo ponte con il suo sguardo?
«Ho scoperto il ponte in una giornata un po’ uggiosa, con una luce morbida e un aspetto un po’ decadente. Ma la luce è così, è uno dei tanti vestiti possibili che le opere indossano. Presto tornerò a visitarlo e magari lo troverò immerso in un gioco di ombre, alcune forme saranno più evidenti, altre più silenziose».
Che relazione c’è tra una struttura simile e la città?
«Sui ponti sono state costruite tante metafore. Il ponte è sempre qualcosa che collega due situazioni. Nei ponti succedono cose, passa la storia. Nei ponti ci si innamora, nei ponti sono stati scambiati ostaggi. Chiedersi, allora: questo ponte che storia ha, che storia racconta? E così trovare la motivazione che ne fa un luogo di incontro e non di separazione».
Lei ha fotografato il cemento svelandone prospettive di insolita bellezza.
«Certo che c’è della bellezza anche nel cemento. Proprio non riesco a capire quanti vi abbinino solo sensazioni di angoscia. Naturalmente tante cose col cemento sono state fatte male. Ma è anche un materiale che permette di esplorare e realizzare mille forme, che è nato in un’epoca di cambiamento e impegno sociale, in cui si voleva fare qualcosa per tutti. Ho visto fare cose incredibili col cemento, basti pensare alle costruzioni di Zaha Hadid. Sì, anche nel cemento può esserci poesia».
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