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POTENZA – Cosa sono i recenti episodi di tensioni fra cittadini e immigrati in Basilicata? Fiammelle che il soffio del buon senso può spegnere facilmente o scintille di una miccia che si sta consumando e anticipa l’eplosione?

Proviamo a capirlo parlando con Mimmo Guaragna, da 29 anni attivo nel campo dell’immigrazione. Ha diretto Città dei Colori, a Londra si è occupato dell’immigrazione latinoamericana, ha lavorato per un’agenzia della Conferenza europea delle chiese e a favore dei rifugiati curdi negli anni Ottanta, ha partecipato al Forum antirazzista.

Qual è la situazione attuale in Basilicata?

«E’ una situazione complessa. Le situazioni degli ospiti a Chiaromonte e a Sasso di Castalda o, ad esempio, i problemi nella zona dell’Alto Bradano per la campagna del pomodoro sono molto diverse fra di loro. Anche se poi, a un certo punto, si incrociano…».

Parliamo dei richiedenti asilo.

«In provincia di Potenza siamo sui cinquecento, dati della prefettura. Più o meno lo stesso numero dovrebbe essere su Matera. Escludiamo i rifugiati Sprar, che però sono pochissimi. Il problema è che la maggior parte – anche persone che stanno qui da un anno – non è stata ancora ascoltata dalla Commissione».

E’ l’unico problema?

«No. C’è da dire anche che le commissioni non possono lavorare. Quella di Salerno deve occuparsi anche di Napoli, Potenza eccetera. Mettiamoci nei panni di chi deve dare una valutazione in base alle richieste dei richiedenti asilo. Anzi, chiamiamoli immigrati, che è meglio…».

Perché è meglio?

«Perché così siamo più onesti. La richiesta di asilo è solo un escamotage…».

In che percentuale?

«Siccome in Basilicata vengono soprattutto dall’Africa sub-sahariana, direi che ci avviciniamo al cento per cento. Certo, nei loro Paesi esistono situazioni di disagio, di guerra eccetera. Ma non è quello che crea la vera figura del richiedente asilo».

E qual è questa figura originaria?

«L’idea che ci stiamo facendo del richiedente asilo oramai non ha più nulla a che vedere con la Convenzione di Ginevra. Faccio un esempio: ti immagini se i tedeschi, quando Dresda fu distrutta dai bombardieri americani, avessero chiesto asilo alla Norvegia perché erano bombardati? La Convenzione di Ginevra è stata mirata a piccole minoranze che si opponevano a regimi dittatoriali».

E quindi, a cosa ci si rifà davanti ai fenomeni attuali?

«Noi stiamo usando una normativa che non regge più. Diciamoci la verità: si tratta di persone che vengono qui per lavorare. A questo punto, un lucano che non trova lavoro potrebbe chiedere asilo in Germania o in Gran Bretagna o, che ne so, in Svezia. Che poi fuggano dalla miseria o dai problemi, è vero».

Dunque pochissime di queste richieste dovrebbero essere accettate…

«E’ una lotteria. Ho conosciuto persone corrette e oneste che qui si sarebbero inseriti bene, ma non erano nella situazione di vedere accolta la domanda. Di contro, ho conosciuto delinquenti – quelli veri, da galera – la cui domanda è stata accolta».

E quindi, come si fa?

«E’ chiaro che non puoi controllare questa enorme massa di persone. Non solo gli italiani hanno qualcosa da di ridire, ma anche gli immigrati propriamente detti. Uno di loro, che è venuto qui, non ha avuto alcun aiuto, si è dovuto inserire fra mille sacrifici, non vede di buon occhio chi per mesi e mesi viene mantenuto dallo Stato (anche se in condizioni di disagio)».

Gli episodi registrati nei giorni scorsi sono segnali di qualcosa di più grave?

«Non sono fenomeni locali. Negli stessi giorni è accaduto a Giuliano. Questi ragazzi hanno contatti con tutta Europa. Si sono mossi in linea proprio per sollecitare le istituzioni».

Come si sono mossi?

«Ad esempio, a Potenza soprattutto i nigeriani stavano per bloccare alcune strade. Non l’hanno fatto semplicemente perché qui Manteca, il soggetto che li segue, ha avuto la capacità – insieme a questura e prefettura – di fare da ammortizzatore».

Cioè, c’erano richiedenti asilo che volevano occupare delle strade?

«Sì. E sono stati bloccati dal buonsenso di Michele Frascolla, il dirigente di Manteca, che si è messo a discutere con loro e poi ha chiesto un incontro con questura e prefettura. Quindi sì, gli animi sono esasperati, ma molte volte manca la capacità di prevenire certi fenomeni».

Ecco, però definiamo bene questi “fenomeni”.

«E’ chiaro che quando arrivano queste masse di persone – in cui, lo ricordiamo, i veri richiedenti asilo sono mosche bianche – ci trovi di tutto: mascalzoni, gente così così e ottime persone. Nella foto di gruppo, le differenze non si notano. E questo è anche il fallimento della mediazione culturale. Che non esiste».

Non esiste dal punto di vista quantitativo o qualitativo?

«La mediazione culturale è una cosa seria. La figura del mediatore culturale è invece inutile».

In che senso?

«Il mediatore linguistico, l’interprete, hanno un senso. Il mediatore culturale dovrebbe essere una fusione fra Leonardo da Vinci e un’enciclopedia. La mediazione culturale dovrebbe essere esercitata con diverse figure. Ma dire “c’è il mediatore culturale” non significa niente».

Come a dire che dovrebbe essere una sorta di Salomone, un saggio?

«Dovrebbe essere quasi un padreterno. Ma alla fine è una forma di clientelismo. Tra i ragazzi dello Sprar ospitati a Brienza ne conobbi uno, molto intelligente, molto bravo, con un buon italiano, che alla mia domanda su cosa volesse fare mi rispose: il mediatore culturale. E’ la richiesta del posto».

Guaragna, ma lei non ha tenuto corsi per mediatori culturali?

«Sì. E, lo riconosco, è un modo per illudere la gente».

Dovrebbe dirlo per onestà anche nei corsi che tiene.

«Caspita, se lo dico. E so già che, da oggi, non me ne faranno fare più. Ricordo anni fa una rissa nata a rione Lucania, Potenza, perché io in maniera forse leggera consentii che si festeggiasse il compleanno di un nigeriano. Per fortuna il comitato di quartiere riuscì a fare un ottimo lavoro di mediazione culturale ed evitò che si degenerasse…».

Allora la mediazione serve.

«Sì, perché nessuno di loro aveva frequentato i corsi di mediazione (ride). E il presidente, Orazio Colangelo, fu molto bravo nel gestire la situazione. Le situazioni si possono tenere sotto controllo quando il terreno è preparato».

E in questo momento la Basilicata è preparata o le scintille che stiamo vedendo rischiano di trasformarsi in incendio?

«La degenerazione è possibile, ma più che rivolte o barricate – cose che possono comunque accadere – a me preoccupa uno scivolare verso l’illegalità diffusa. Con questi ragazzi abbandonati a se stessi, se uno li avvicina e li recluta come manovalanza in attività illecite, perché non dovrebbero essere disponibili? Se il governo poi pensasse a fare altre sciocchezze come i rimpatri di massa…».

Come fu con gli albanesi nel ’91?

«Sì, ma erano pochi e si potevano controllare. Oggi potrebbe comportare situazioni di rivolta o quanto meno di resistenza. E forse qualcuno li vuole pure».

Ha parlato finora di responsabilità nazionali. E la politica locale, che sta facendo?

«Pietro Simonetti si è reso parte diligente con pochi mezzi e tutta la disponibilità a comprendere la portata del fenomeno. La Regione ha dichiarato di voler portare a 2.000 i posti disponibili per l’accoglienza. Uno slogan che non ha né capo né coda».

Lo aveva lanciato nell’aprile scorso il presidente della giunta Marcello Pittella, parlandone come di una sorta di rimedio contro lo spopolamento. Mentre il presidente del consiglio regionale, Piero Lacorazza, disse a maggio che per lui «35 euro per persona al giorno possono servire a generare economia» nei piccoli centri.

«Slogan elettorali. Non possiamo dire: ripopoliamo i comuni. Se si sono spopolati, una ragione ci sarà. Basta vedere il Piano di sviluppo rurale: ci sono più enti inutili, in agricoltura, che agricoltori. Ci lamentiamo tanto degli africani che chiedono l’elemosina davanti al supermarket. Sono solo la fotografia dei politici lucani che sanno solo chiedere l’elemosina senza sapere niente dei soldi che l’Europa concede loro».

Digressione: c’è un’organizzazione, che lei sappia, dietro ai questuanti davanti ai market?

«Penso di sì. Ma bisogna essere onesti: gli organizzatori, oppure i famigerati “caporali neri”, così come da un lato si approfittano dei propri connazionali, dall’altra parte li aiutano».

Cioè?

«Riempiono un vuoto. Gli offrono un servizio».

Così nascono le mafie: là dove ci sia un vuoto istituzionale.

«Certo. Se lo Stato latita, qualcuno colma quell’assenza. E nel frattempo i cittadini soffrono di una schizofrenia: da un lato sentono di dover accogliere, dall’altro hanno sempre più paura e diventano razzisti».

Come se ne esce?

«Sulla Terra ci sono 250 milioni di persone che si spostano. Oltre quattro volte la popolazione italiana. E’ un fenomeno naturale. Cerchiamo di capire come i flussi migratori possano essere controllati, indirizzati e assecondati. La richiesta di asilo ha azzerato la Bossi-Fini, che viene scavalcata e di fatto annullata. Parliamo di rimpatri assistiti: chi se ne occupa, in Basilicata, ne è riuscito a fare meno delle dita di una mano. Le Ong, che vanno a fare danni nel Terzo Mondo, perché non vengono coinvolte in progetti di sviluppo che facciano venire in Europa immigrati vincolati ad apprendere il know-how e portarlo nel Paese d’origine? Alcuni marocchini che hanno vissuto in Emilia lo hanno fatto. In Africa lo si sta capendo, qui da noi, no. Poi ci sono problemi linguistici: persone che vengono qui parlando solo la loro lingua».

Se fosse presidente della Regione cosa farebbe adesso per sciogliere subito le tensioni che si vanno accumulando?

«In agricoltura si può fare molto. Utilizzando i terreni pubblici, e sfruttando le conoscenze di alcuni bravi tecnici che ha l’Alsia, si potrebbe valorizzare come lavoratori e tecnici un buon 30/40% di queste persone, coinvolgendo anche le piccole aziende. Così nel campo dell’artigianato».

Cosa deve rimproverarsi allora la Basilicata?

«Di avere trasformato molte di queste persone in pezzenti che chiedono l’elemosina. Nessuno, o quasi, ha provato a farli diventare cittadini».

Perché “o quasi”?

«Parlo di nuovo di Manteca. A un piccolo corso della Scuola edili ha fatto partecipare, ad esempio, una decina di richiedenti asilo. Si cercano contatti continui con Confartigianato o con Cna. Gli imprenditori sono diffidenti solo all’inizio. Una ditta di trasporti di Tito ha assunto un richiedente asilo del Mali. L’imprenditore lo tiene da un mese e ci ha detto: a settembre avrò altre commesse, se ci sono ancora questi ragazzi, li voglio».

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