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POTENZA – A novembre la Finanza aveva già sequestrato più della metà dei 280mila euro di contributi per l’editoria erogati all’Eco della Basilicata tra il 2006 e il 2010. Ma a marzo la Presidenza del consiglio dei ministri ne aveva chiesti indietro altri 100mila alla società editrice, bloccando il pagamento anche dei 22 mila previsti per il 2013. Ed è dovuto intervenire il Tar per evitare «l’interruzione dell’attività».
E’ stata depositata nei giorni scorsi la decisione dei giudici di via Rosica sulla sospensiva chiesta dagli avvocati Giovanni Francesco e Antonio Nicodemo per conto della testata lauriota.
Il decreto a firma del dirigente del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria di Palazzo Chigi tornerà in aula a febbraio dell’anno prossimo. Intanto la sopravvivenza del settimanale di Mario Lamboglia, già vicesindaco di Lauria, dovrebbe essere assicurata, perché, secondo il Tar Basilicata, «le esigenze cautelari dell’amministrazione resistente sembrano essere adeguatamente tutelate dal sequestro preventivo disposto dal gip del Tribunale di Lagonegro». Sempre a meno che le indagini non riservino altre sorprese.
I problemi per “L’Eco” sono iniziati quando le fiamme gialle hanno scoperto che una presunta truffa (aggravata) da 155mila euro.
L’indagine era stata avviata nell’ambito di un monitoraggio svolto a livello nazionale. Così sono finiti nel mirino il rappresentante legale della società cooperativa giornalistica, Mario Lamboglia; e la titolare e la socia (accomandataria) di una società di consulenza ed elaborazione dati con sede a Lauria, Paola Cozzi e Isa Albini.
Per loro l’accusa è di aver emesso un numero di fatture false per presunte “vendite in blocco” del periodico, in realtà mai eseguite, nei confronti di soggetti ignari di tali “acquisti”. In questo modo sarebbe stata indotta in errore anche la società di revisione, con sede in Milano, che ha certificato, nei bilanci di esercizio al 31 dicembre 2008, 2009 e 2010, la vendita di circa 73mila copie in più rispetto a quelle effettivamente distribuite.
Lo stratagemma sarebbe stato orchestrato per superare la percentuale del 40% di diffusione certificata (l’insieme di vendite e abbonamenti) rispetto alla tiratura (cioè alle copie stampate), che consente di accedere ai fondi previsti dalla Legge 250/1990, «nella formulazione vigente all’epoca dei fatti».
Tra le anomalie balzate subito agli occhi degli inquirenti ci sono «incongruenze» come quella tra i costi sostenuti per l’acquisto in blocco del giornale da parte di alcune piccole imprese, e la loro reale capacità economica. Vendite a diversi commercianti, spesso legati da vincoli di parentela o affinità con i titolari dello studio professionale, giudicate «sproporzionate» rispetto a volumi d’affari «irrisori», se non in perdita. Quando l’impresa acquirente non era già chiusa.
Due i casi evidenziati dalle Fiamme gialle. In primis quello di un panificio, che in un solo anno avrebbe acquistato 23mila copie, cioè mille copie di ogni edizione, atteso che il periodico in questione viene pubblicato 23 volte l’anno.
Poi quello di un giostraio, con volume d’affari annuo di circa 10mila euro, che avrebbe acquistato giornali, in un solo anno, per settemila euro.

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