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«GIUSTIZIA ritardata è giustizia negata» scrive Angelo Jannone in esergo al suo libro sul delitto dei fidanzatini di Policoro (“Aspettando… giustizia”, Secop Edizioni, pp. 208, 13 euro). La massima di Montesquieu è quanto di più amaramente adattabile al caso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta, i due ragazzi trovati morti il 23 marzo del 1988, quando «i cadaveri denudati di due giovani fidanzati vengono rinvenuti nel bagno dell’abitazione della ragazza. La ragazza nella vasca da bagno. Il giovane supino sul pavimento con un asciugamani sulle parti intime.
Il caso viene chiuso rapidamente con l’ipotesi di una morte sopravvenuta per folgorazione»: così scrive Jannone in una prosa scarna ed essenziale che poco si discosta dalla cronaca nera poco romanzata, quasi da agenzia di stampa. Jannone ha una lunga esperienza nei carabinieri, da ufficiale e in particolare nel Ros. È un grande conoscitore del fenomeno mafioso ma si tuffa a capofitto in questa storia apparentemente “di provincia” per renderla universale e raccontare un caso di malagiustizia.
«I fatti narrati in questo libro – spiega l’autore nell’avvertenza che apre il volume – sono ispirati a una storia vera e basati su atti processuali, nonostante molti dei personaggi secondari e vicende di contorno siano frutto della fantasia dell’autore. Anche alcuni nomi sono stati volutamente alterati per non colpire la sensibilità dei veri protagonisti».
Nell’intreccio della storia, Jannone si sveste dei suoi panni di agente sotto copertura (alla sua figura sembrano ispirati “L’infiltrato. La vera storia di un agente sotto copertura” di Carlo Brambilla, Melampo 2008, e “Una vita da infiltrato” di Giorgio Sturlese Tosi, Bur 2010) ma di fatto sembra, appunto, infiltrarsi perfettamente ex post in una vicenda di 27 anni fa con un procedimento da sub: un’immersione totale che lo fa sembrare coevo ai fatti narrati.
Fin dall’attacco del romanzo, l’ossatura della narrazione è costituita dai dialoghi. Secchi e densi nello stesso tempo, ci restituiscono appieno la figura dei protagonisti in tutte le loro sfumature ed esitazioni, nei dubbi e negli scheletri custoditi nell’armadio. Jannone lascia poco spazio ai voli pindarici e guida il lettore nel labirinto di un caso enigmatico senza “suggerimenti” o chiavi di lettura, né preconcetti. Lo stile è asettico, benché il rischio della retorica fosse dietro l’angolo se non altro per una questione corporativa.
Felici le descrizioni dei personaggi che ad uno ad uno prendono posto tra le pagine come se arrivassero alla spicciolata nella piazza centrale di un assolato centro del Golfo di Taranto. E così “zu’ Emanuele”, «magrolino e basso, sempre con un coltello a serramanico in tasca», è il prototipo del mafioso “vecchio stampo” che una vulgata forse più nociva dell’omertà e delle coperture di ogni tipo ha spacciato per benefattore.
Tra le maschere della fiction non mancano quelle delle famiglie storiche del crimine organizzato di un territorio a cavallo tra Calabria, Basilicata e Puglia che ha fornito negli anni una vasta letteratura giudiziaria fatta di ordinanze, pagine che raccontano al meglio la mutazione violenta di un territorio baciato dalle radici magnogreche e da una vena turistica mai abbastanza valorizzate.
Il caso di Luca e Marirosa venne derubricato a incidente. «Ma, a distanza di qualche anno, un capitano dei carabinieri cocciuto (Salvino Paternò – ndr) ed un padre che non si rassegna vogliono vederci chiaro e, grazie ad un dettaglio, scopriranno l’inizio di una verità sconvolgente» fatta di «indagini ostacolate» e «investigatori scomodi trasferiti. Perché chi tocca le vere caste finisce folgorato».
Commovente il capitolo sulla “Partenza” di Paternò: un corteo spontaneo di cittadini «giovani e meno giovani, donne e uomini, famiglie con bambini. Ognuno di loro con in mano un cero. E con striscioni con scritto: “No alla Mafia! No alla violenza” e ancora “Viva i carabinieri! Policoro è con Voi!” Sotto i baffi gli spuntò un sorriso commosso. Abbracciò i suoi “uomini” con vigore».
Un procedimento cinematografico che forse testimonia la forza che la storia potrebbe avere in una eventuale trasposizione sul grande o sul piccolo schermo è invece la sezione conclusiva del volume, l’Epilogo “Che fine hanno fatto?”: in una carrellata vediamo i volti dei protagonisti, e l’excursus non poteva che concludersi con il capitano Paternò, il quale «dopo la fiaccolata di sostegno ai carabinieri, fu confermato per un anno in Basilicata, al comando del Reparto Operativo di Potenza, dove portò a termine le indagini sull’organizzazione mafiosa dei Basilischi, che si conclusero con l’arresto di 99 mafiosi. (…) Successivamente anche lui fu trasferito nelle sue terre d’origine, alla Scuola Marescialli di Velletri, con l’incarico di insegnante di tecniche investigative. Dopo alcuni anni ed insistenti richieste, gli fu affidato l’incarico di Comandante del Reparto Operativo di Rieti, ove ha concluso il suo percorso nell’Arma, congedandosi anzitempo con il grado di Tenente Colonnello, vista anche la mancata promozione a Colonnello. Oggi coltiva la terra in Ciociaria ed è docente a contratto alla Sapienza nei master di Criminologia». Una storia nella storia, forse anch’essa da raccontare.
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