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Per l’Antimafia di Catanzaro era l’uomo in più degli zingari di Cassano, al comando del policorese Filippo Solimando, da tempo residente in Calabria, ma che di recente aveva spostato la “base operativa” dei traffici di droga del clan in Basilicata, per «sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine». Gerardo Schettino, ex carabiniere 50enne di Scanzaro Jonico con un lungo curriculum criminale alle spalle, a marzo è stato raggiunto un’ordinanza di arresto per traffico internazionale di stupefacenti, assieme a Solimando e ai vertici della ‘ndrina egemone sullo spaccio nel cosentino. Ecco il testo della lettera che ha inviato al nostro collega Leo Amato.
Egregio dottor Amato,
la presente non per contestare il suo dovere al diritto di cronaca (sacrosanto, per carità) sugli altrettanti puntuali articoli apparsi sul foglio per cui lei scrive, del 18 e 19 u.s., ma solo per puntualizzare su qualche frase e/o definizione da lei inopportunamente, impropriamente e superficialmente usata, forse per meglio colorire o dare un certo tono o alone di importanza o gravità ai fatti in narrativa nei suoi servizi, secondo la Sia (a dir la verità, distorta) visione della realtà. Una realtà che contrappone a congetture prive del ben che minimo riscontro oggettivizzante delle tesi (degne della migliore fiction televisiva) accusatorie costruite ad arte dagli inquirenti situazioni di disagio personale ed esistenziale che le stesse – nel tempo – hanno apportato e continuano ad apportare. Mi riferisco, in particolar modo, al presunto e asserito “…ruolo di primissimo piano…” che lo scrivente avrebbe assunto negli ambienti del crimine metapontino e alle “…alleanze… con i clan di Taranto e dell’alto cosentino…”
E non solo; perché, dove il diritto di cronaca perde tale sua connotazione e diventa qualcosa di diverso, qualcosa che somiglia di più non solo ad una gratuita diffamazione ma ad un vero e proprio atto d’accusa e di condanna prima ancora che vengano eventualmente trovate, circoscritte e cristallizzate le prove di questa accusa, è davvero troppo. Lei scrive, in esordio dell’articolo del 19 giugno 2015: “…Spacciare a Policoro è pericoloso. C’è chi finisce accoltellato per strada e chi dal carcere vede andare in fumo auto e proprietà…” Pertanto – se ne deduce – che lei dà per scontato che il sottoscritto è uno spacciatore di droga.
Ebbene, aldilà degli innegabili profili di responsabilità penale e civile che si configurano nei suoi confronti e che mi riservo di azionare nel tempo, nei luoghi e con le modalità previste, se così fosse, caro dottor Amato, vorrebbe allora dare una altrettanta banale logica spiegazione sul come mai nelle patrie galere, per così dire, di tipo comune (e mi riferisco alle strutture penitenziarie di Matera prima e Potenza poi) non sono mai stato accettato da quelle comunità carcerarie?
Eppure, stando alle “fantasticherie” riportate nel suo giornale (che certamente riprendono ciò che rappresenta il frutto dei “cortometraggi” realizzati senza nemmeno tanta arte dagli inquirenti datele in pasto), io, Gerardo Schettino “u Carabinir”, definito anche “…la primula rossa del Metapontino, boss emergente e in contatto, ovvero in alleanza, con i maggiori clan della zona territoriale di che trattasi, spacciatore di droga a Policoro e dintorni nonché referente della ‘ndrina di Corigliano per i traffici di droga sulla Ss 106…”, quantomeno avrei dovuto avere un minimo di rispetto in quelle strutture carcerarie di cui le facevo prima cenno; invece: nel carcere di Matera, allorquando sono stato tratto in arresto, nel lontano 2009, nell’ambito dell’operazione “Agro racket” (poi assolto in tutti i gradi di giudizio, sic!), la comunità carceraria (i detenuti) di quel luogo, mezze tacche di delinquenti, drogati, pederasta, etc., non mi hanno voluto tra loro perché ero considerato un ex carabiniere; tanto da far ritenere opportuno e necessario il mio immediato trasferimento “per motivi di sicurezza” alla struttura penitenziaria di Potenza – sezione protetta.
Nell’anzidetto carcere, ricco di pentiti, pedofili e omosessuali, il “boss” Schettino (io), anche lì, non è stato accettato da costoro per lo stesso motivo rappresentato dai detenuti di Matera, cioè, perché ero un ex carabiniere. Alla fine, l’unico luogo ove ho potuto trascorrere quel periodo di “soggiorno” è stato in una cella riservata agli omosessuali.
Nulla contro, ovviamente, per questi individui, ma certo è che per un “boss” del calibro di Schettino (per come ritenuto dagli inquirenti) è strano, anzi, oserei dire molto dubbioso, che tali atteggiamenti quantomeno “irrispettosi e offensivi” qualora al cospetto di un boss caduto in disgrazia ingiustamente e per volere non suo (se solo ciò fosse stato vero e così ritenuto da quelle persone che nel panorama delinquenziale rappresentano coloro i quali prendono ordini in quei particolari ambienti), possano verificarsi.
Da qui – e andiamo a “toccare” un altro svarione dei suoi articoli, questa volta in assoluta sua autonomia di giudizio – la seconda inopportuna illazione riportata sul quotidiano per cui lei scrive, che si riallaccia alle considerazioni testè espresse, laddove definisce come “albergo” la struttura carceraria ove, mio malgrado, sono – oggi – ancora detenuto.
Se lei è riuscito a comprendere e ad appurare delle mie vicissitudini giudiziarie e carcerarie di cui prima (per le quali, queste sì, è verità conclamata e riscontrabile agli atti delle stesse carceri su richiamate) comprenderà anche e perciò stesso che il mio attuale “soggiorno” in tale “albergo” di Santa Maria Capua Vetere è d’obbligo, proprio perché non accettato dalla “mala lucana”, perché da questa considerato ex carabiniere.
E allora, la domanda, a questo punto e parafrasando un suo famoso collega, non dovrebbe nascerle spontanea? E cioè: se fossi un “boss”, ancorché di primo piano, perché mai non dovrei essere accettato da delinquenti di basso lignaggio tanto da essere costretto a “rifugiarmi” in quel di Santa Maria Capua Vetere e costringere altresì e soprattutto la mia famiglia a spostarsi avanti e indietro di ben oltre 600 km! per venirmi a trovare? Ovviamente con i disagi annessi e connessi che ne derivano?
Se fossi stato il boss che la magistratura e le forze dell’ordine “specializzate” che indagano credono io sia, non pensa che sarei stato molto ben accolto nelle patrie galere civili (e non in quella militare), con tutti gli “onori” che può comportare di avere un capo tra di loro?
Terzo appunto. Lei afferma che lo scrivente, avanti al gip, avrebbe ammesso “…soltanto la frequentazione con alcuni degli indagati, conosciuti quando lavorava in provincia di Cosenza”.
Al riguardo, non ho certamente utilizzato quel termine (frequentazione), bensì quello diverso di conoscenza, che sta a significare ben altra cosa; ho riferito infatti di conoscere quei personaggi di cui mi veniva chiesto e non solo per il lavoro che svolgevo in quella provincia (Cosenza), ma perché, essendo solo nativo di Viggianello, in realtà sono cresciuto e sempre vissuto a Cassano allo Jonio! Quindi, la gente di quel piccolo luogo, la si conosce tutta! Inoltre, quando indossavo l’uniforme ed ero un “servitore dello stato”, negli anni ’90, ho avuto modo di lavorare su quei personaggi che lei cita nel suo articolo, vi sono gli atti che lo possono dimostrare.
Perché non approfondisce in tal senso, dottor Amato? Faccia le necessarie e giuste ricerche e riscontri e non si limiti a scopiazzare bovinamente ciò che le propinano, utilizzi il suo saper fare cronaca (se dotato di tale virtù) e non si lasci manipolare.
Altresì, ho spiegato in sede di interrogatorio che al matrimonio di mia figlia non c’erano invitati “pregiudicati”. Le foto che lei intende ritraggono l’agente e/o il “contatto” dell’artista campano “preso in affitto” per quell’evento che, come avranno notato certamente gli investigatori, non stavano seduti ai tavoli degli invitati ma a quello dei musicisti! Pertanto, non vedo come possa essere correlata una ipotetica trattativa col sottoscritto di ben 5 kg di cocaina con quelle persone e proprio durante quell’evento; e non, eventualmente, in altro luogo e data. Forse per dare un senso, una trama, al film? E comunque, non potevo certamente chiedere agli anzidetti professionisti, per il loro lavoro reso alla mia famiglia, il certificato antimafia o di buona condotta.
Per quel che attiene, infine, al presunto “…messaggio incendiario…” nei confronti dell’imprenditrice Sonia Schettino, figlia del sottoscritto, proprietaria del locale ubicato sul lungomare di Scanzano dato alle fiamme, nonché sull’analogo episodio delittuoso che ha interessato la sua autovettura (e non del di lei marito, cioè mio genero), ad ella intestata e dalla stessa acquistata in epoca di molto antecedente il suo matrimonio, se ne può trarre, ancora una volta, che le sue affermazioni sulla questione, caro dottor Amato, sono anche queste false e tendenziose.
Fatti che non riguardano certamente la mia persona e i miei interessi, semmai di quell’imprenditrice, che costituisce nucleo familiare diverso dal mio, nonché p.i. (partita iva, ndr) autonoma.
E comunque, anche per questi episodi, sarebbe quantomeno necessario attendere l’esito degli sviluppi delle indagini prima di ipotizzare e “sentenziare”, come lei è abituato a fare, infangando gratuitamente la reputazione delle persone prima ancora della “nascita e messa a punto delle prove”, dell’instaurazione di un “regolare processo” e della relativa sentenza, di condanna o assoluzione.
Non le sembra, forse, sia più corretto agire così, caro dottor Amato?
Un’ultima considerazione: qualora il luogo ove ora mi trovo “custodito”, come lei sostiene e definisce, sia un albergo, allora, in un clima di “stima” reciproca come quella che lei riserba alla mia persona, auguro a lei e a chi come lei la pensa di soggiornarvi per un lungo e intenso periodo di “vacanza” e di essere soprattutto un “cliente abituale”, anche per ritemprarsi dalle fatiche quotidiane sempre alla ricerca di notizie vere e suffragate da riscontri puntuali, come quelle che lei è abituato a vergare.
Cordialità,
GERARDO SCHETTINO
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