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ORE 9,30. ALLA STAZIONE di Potenza arriva l’autobus che da Salerno porta i viaggiatori del Regionale partito poco prima delle 7 da Napoli centrale. Scende Gianni, nome italianizzato come la parlata («compà», «prendi un accendino? Devo mangiare amigo»).
S’inerpica da via Marconi verso il centro città col suo negozietto vivente: lui è tra quelli che si sono “reinventati” venditori ambulanti – nel senso letterale del termine: vendono mentre camminano, soprattutto cianfrusaglie e calzini solitamente commercializzati dai vucumprà pendolari campani –, raccolgono qualche sorriso, molte imprecazioni e pochi incassi. Il minimo per pagarsi un panino e il biglietto di ritorno sul treno delle 19 (8 euro e 65) e così ricominciare ad alimentare questa transumanza su rotaia, un “distretto” economico mobile, una filiera degli ultimi: fenomeno che resta fuori dagli indicatori ottimistici dell’Istat e di Bankitalia.
Ma non c’è solo “Gianni” tra i migranti invisibili. Nero vuol dire, anche in Basilicata, soprattutto irregolare e sommerso come nel resto del Sud – e non solo, come vedremo. Said è uno degli stagionali che alimentano, loro sì, una ricchezza tangibile tanto da finire sulle nostre tavole e su quelle dell’opulenza occidentale che manda il cibo al macero tanto da spingere il Papa a uno dei suoi appelli di sensibilizzazione.
È un esercito di schiene spaccate e mani che raccolgono i tesori del gusto mediterraneo che hanno fatto bella la Lucania Felix tra le paillette dell’Expo2015 a Milano.
Prima dei 980 profughi accolti in regione dopo il boom di sbarchi, Said e tanti altri ancora hanno dato vita a una comunità parallela, una terza provincia meticcia e tutta occupata, a differenza delle due “ufficiali”: se in Piemonte è di recente esploso il caso della finta coop che prende 4 euro al giorno per ogni migrante su 8 pagati dal coltivatore, nel Metapontino la cifra scandalo è di 10 euro a testa per caporale; nel 2014 sono stati utilizzati (dati ufficiali) circa 35mila lavoratrici, in gran parte immigrate residenti in Calabria, Puglia e Lucania. «Un esteso mercato dello sfruttamento a sua volta inglobato nella rete della distribuzione nazionale che spreme i lavoratori e condiziona i produttori); nei giorni scorsi su 27 imprese controllate da carabinieri e ministero del Lavoro nel Metapontino oltre 200 immigrati lavoravano in nero» (i numeri sono recenti e sono stati forniti da Pietro Simonetti del Coordinamento migranti Regione Basilicata).
È l’enclave che ha spinto la giunta regionale a varare il progetto “Luci a Boreano”: «Spezziamo le catene dello sfruttamento, assicuriamo il rispetto dei diritti dei lavoratori stagionali migranti», e per una volta lo slogan potrà avere una coda “reale” visto che a giorni saranno aperti i campi e sarà sgomberata l’area abusiva. Sarebbe, se davvero dovesse accadere, il giusto coronamento di un’azione di “emersione”: dal trasporto sul campo di raccolta al posto letto in strutture di accoglienza (dal primo settembre), dall’assistenza medico-legale all’uso dei servizi.
Lontano dai campi dello schiavismo del terzo millennio fiorisce una casistica meno dolorosa ma altrettanto avvilente tanto per chi la alimenta quanto per chi la osserva impotente, nel capoluogo come nei centri più popolati: qui fa ormai parte del paesaggio la richiesta di elemosina davanti ai supermercati o alle edicole o alle rivendite di tabacchi, e la novità è tutta negli occhi bassi di tipologie di migranti solitamente estranee a queste attività (soprattutto africani ma non del Maghreb).
È per questo che la notizia dei 39 profughi disposti a curare il verde e la pulizia di Potenza a fronte delle difficoltà di cassa dell’ente potrebbe rappresentare un unicum nel suo genere: migranti volontari sopperiscono alla carenza di servizi che le istituzioni non riescono ad assicurare ai cittadini italiani, ovvero un particolarissimo racconto dell’Italia dei tagli, davvero da un’altra prospettiva.
La proposta è stata lanciata nei giorni scorsi dall’assessore comunale alle Politiche sociali Nicola Stigliani, nel corso di un incontro con le associazioni di volontariato. Per trasformarla in realtà basta l’iscrizione dei ragazzi interessati in una delle associazioni coinvolte (lo impone una direttiva ministeriale del novembre 2014). Potrebbe essere un’altra storia del Sud che accoglie, come la Calabria dei sindaci di Acquaformosa e Riace – Manoccio e Lucano – oppure dei migranti che a Montalto Uffugo (Cosenza) insegnano l’inglese agli italiani: in cambio di ospitalità, due ragazzi afghani, Mosa e Mohamed, uno laureato in Ingegneria l’altro con un diploma professionale, nel centro Sprar gestito dalla cooperativa Promidea danno lezioni di lingua a una quindicina d’iscritti.
Ma tornando a Potenza, che fine farà quel progetto virtuoso dei 39 ora che l’amministrazione ha le ore più contate, se possibile, che nelle settimane scorse? Non è che le prossime campagne elettorali cancelleranno un tema che ha poco “appeal” e anzi fomenta la xenofobia in una specie di guerra tra poveri come quella tra i “venditori camminanti” italiani e quelli stranieri?
A Potenza c’è il caso di Rione Lucania con un inedito esperimento d’integrazione riuscita, e l’amministrazione rivendica la scelta di aver voluto praticare un’accoglienza diffusa senza creare capannoni di alienazione sociale e degrado materiale.
Altre isole felici, ben lontane dai non luoghi che vediamo nelle Rosarno e Villa Literno d’Italia, a Rifreddo e nelle strutture di accoglienza nei Comuni di Venosa, Palazzo San Gervasio – Montemilone (Cie) e Lavello. Da qui la Basilicata che non sbraita davanti agli attacchi populisti in radio e non gode a propalare odio sui social può ripartire. E fare notizia per qualcosa che non sia Fca o petrolio.
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