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E se davvero fosse “buona”? Voci stonate nel coro del dissenso, proviamo ad argomentare un giudizio positivo sul ddl LaBuonaScuola, pur in presenza di importanti criticità. Perché? Per una parola che pesa più di tutte, seppur sepolta nel dibattito di questi mesi, monopolizzato dai temi caldi del “preside sceriffo”e delle assunzioni: l’autonomia. La quale, finalmente, si avvia a un bagliore di concretezza dopo anni di proclama teorici.
Il processo (avviato dai tempi di Bassanini e Berlinguer) non è stato mai compiuto, strozzato da corporativismi e da una cultura centralista per cui le direttive calate dall’alto paiono di per sé positive, perché imparziali e staccate dalle dinamiche dei rapporti dal basso (preside-docenti-famiglie-alunni-territori), sempre guardati con sospetto.
Con la Buona Scuola ci sarà meno Stato, dall’alto, a indicare come organizzare le ore, come gestire il personale, come impostare il curriculum, l’organizzazione didattica e l’uso degli edifici scolatici.
La palla è passata più in basso alla comunità educante e al suo leader, il Dirigente.
Non più, però, senza carichi di responsabilità.E’ la responsabilità, appunto, l’altro tasto decisivo che La Buona Scuola ha provato a toccare (in questo senso il testo della Camera era migliore di quello passato al Senato, che limita la cosiddetta chiamata diretta, per noi iniquamente, ai soli soprannumerari e assunti dell’organico dell’autonomia, depotenziando questo aspetto). In dieci anni di insegnamento lo abbiamo sperimentato personalmente: il principale motivo per cui la scuola italiana non ottiene buoni risultati, come confermano i test Ocse-Pisa che ci fotografano in confronto con le scuole di altri Paesi, è legato alla responsabilità degli insegnanti e dei Dirigenti. Responsabilità significa dover rispondere a qualcuno del proprio operato.
Di fatto, nella scuola come in altri settori del pubblico impiego, questo non accade. Si può lavorare bene, male, con pigrizia o impegno: non si è elogiati, premiati, né puniti. Non si è visti. Ciascuno lavora per sé, stimolato solo dalla propria coscienza: lo stipendio arriva lo stesso.
D’altra parte il Dirigente Scolastico, nella scuola attuale, ha una responsabilità limitata al controllo di atti e procedure. Insomma, le “carte a posto”. E’ un leader burocratico, non educativo, né può esserlo perché non può dar conto, in alcun modo, della qualità e dell’impegno di docenti che non sceglie lui.
Con l’incarico diretto del Dirigente, forse, si potrebbero innescare questi meccanismi di responsabilità. Non sarà certamente una panacea (soprattutto per le limitazioni del maxiemendamento), ma il sasso in uno stagno immobile sì. L’ipotesi, come è noto, è stata subissata dalle proteste per le possibili degenerazioni clientelari. Ma è davvero giustificata questa sfiducia preventiva?
Perché un Preside chiamato a garantire il buon funzionamento di una scuola, in merito al quale è valutato (si badi bene), dovrebbe far prevalere criteri selettivi di tipo clientelare? Qualcuno lo farà, certo, ma in un’ottica di sistema, si è sicuri che sarà la logica prevalente?
E comunque, da domani, se la scuola andrà male, sarà chiara la responsabilità di Dirigenti in primo luogo, poi dei docenti e in parte anche delle famiglie.
Oggi, in fondo, la colpa non è mai di nessuno. E chi nega che le cose vadano già male, al grido “non toccate la scuola pubblica”, è, al minimo, in cattiva fede. Vorremmo provare a guardare questa novità in un senso opposto, come un’opportunità. Per i docenti la nuova autonomia potrebbe diventare una nuova sfida che scardina il meccanismo delle garanzie e chiede a tutti una creatività nuova nel rapporto con il leader educativo, il Dirigente. In fondo, perché farsi dire tutto dallo Stato?
Non abbiamo niente da dire, niente da comunicare, niente per cui giocarci la faccia? Abbiamo paura? Qualcuno, molto lealmente, ci ha risposto di sì, altri, meno lealmente, preferiscono richiamare la paura per le possibili ingiustizie altrui.Non è, invece, una sfida culturale più piena, sebbene meno comoda, il rapporto con una persona in carne e ossa piuttosto che con una circolare fatta di perifrasi e tecnicismi? Non priviamoci di questa bella e “pericolosa” opportunità.
Pericolosa ha la stessa radice da cui provengono parole come “esperienza” e “prova”. Mettiamoci alla prova, perciò. “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato BuonaScuola” ha commentato l’altro ieri Nichi Vendola, sulla scorta di una celebre frase di Tacito.
Ebbene, se ciò significa deserto di ordini dall’alto, deserto di imposizioni e regole rigide, deserto di responsabilità, che ben venga questo deserto. Per i costruttori il deserto è il luogo ideale. Diventa un problema per i distruttori.
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