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“Mamma tu solo sei vera, e non muori perché sei sicura”. Con questi due versi si conclude una poesia di Rocco Scotellaro, scritta poco prima della sua morte. L’ho letta tante volte nella mia casa romana. “L’ho letta a voce alta quando ero sola e, invece, volevo parlare con qualcuno.
L’ho scritta su Whatsapp ai miei pochi amici lucani -quelli che come me, ogni tanto vengono morsi dalla malinconia e dalla rabbia- i giovani lucani trentenni, che dicono: non-sono-di-qui-non-sono-di-là, dunque cosa sono, cosa faccio? Torno giù?
 – Ti voglio vedere a te giù. Che devi fare giù? – mi rispondono alcuni, come se per loro dire “giù” fosse una bestemmia e poi anche il nome esatto di un paese. Il mio “giù” sarebbe Matera, il luogo della mia personale irrequietezza, che poi è la stessa irrequietezza che mi sta prendendo in questi giorni anche a Roma; quello-stare-male, che mi blocca le mani per non farmi scrivere più nemmeno una parola – una parola che abbia un suo percorso, una sua alba; una parola che mi piaccia di nuovo, per davvero.
Non-sono-di-qui-non-sono-di-là, questo è il punto, il mio punto dal quale provare a ripartire.
“E’ fatto giorno” mi dice Rocco Scotellaro, e io provo a guardarlo in faccia il giorno che si compie, incazzata e sola, indifferente e sperduta, attendendo che qualcosa cambi – ché il cinismo romano è logorante, devo ammetterlo! –.
Sulla mia scrivania, vicino al computer c’è una stampa di Durer dal titolo“Melancholia”.
La guardo e penso: ecco, quella donna seduta con aria pensosa davanti a una costruzione di pietra, quella figura alata con in volto l’espressione della rinuncia sembro io, e non mi piace vedermi così.
-Con chi posso parlare stamattina? Ora che è fatto giorno, chi mi regala un’emozione?
Decido di lasciare Roma, qui fa troppo caldo, c’è troppo traffico e poca gente. Chiamo mia madre e le dico che scendo “giù”.
Sì, mi concedo il lusso del ritorno-senza-motivo, il lusso della contraddizione, il lusso dell’incoerenza, voglio illudermi e deludermi, fondermi e confondermi con la mia gente. Perchè, a un certo punto, è inevitabile il ritorno. Anzi no, questa volta voglio provare a fare la turista, voglio provare la meraviglia che provano i turisti quando vedono per la prima volta il mio “giù”: Matera, la “capitale della vergogna”, trasformata in “capitale della cultura Europea”.
Voglio vivere una settimana da turista e mangiare fuori casa tutti i giorni.
Non ho bisogno di risposte, diamine!
Voglio ripartire da me.
Non ho bisogno di domande, diamine!
Voglio il non detto, il silenzio della meraviglia, quello stupore che fa venire le lacrime agli occhi.
Forse voglio danzare, perché la danza comincia proprio quando le parole finiscono – e io le ho finite.
Mary D’Alessio, la mia maestra di danza classica, lo sa come sono fatta, mi conosce da tempo oramai, e sa che quando torno all’improvviso a Matera e busso alla sua scuola di danza un motivo c’è sempre.
-Cosa cerchi brigantessa?- così mi chiamano i pochi amici lucani, perchè per loro sono una brigantessa-dallo-sguardo-rotto.
Ogni volta che entro nella sua scuola di danza, mi sembra di essere volata a Parigi.
“Ci beviamo un the danzante, invece del caffè?” le dico, sorridendo, mentre mi accoglie in un abbraccio materno.
“Ma come fai?” chiedo a Mary “come fai ad essere sempre così solare?”.
“Sono loro, le mie ragazze… è la danza, non smetto di credere in ciò che amo, nella mia passione più grande. Insegno danza, questo faccio”.
Mary D’Alessio, la ballerina di danza classica, ma anche la classica guerriera che non si perde mai d’animo, non insegna solo danza, ma incoraggia e educa le sue giovani ragazze alla serietà, alla sobrietà e alla disciplina, al coraggio di credere in quel cassetto pieno zeppo di sogni, nonostante tutto.
Guardo le allieve danzare, annuso sudore e armonia: loro sì che hanno imparato “l’arte della gioia”.
E’ proprio vero ciò che Nietzsche sostiene: il mondo senza la danza non potrebbe esistere e ne sono convinte anche loro, le allieve di Mary.
Adele danza per imparare a gestire la timidezza e per conosce il proprio corpo.
Stefania danza perché dopo aver lavorato tutto il giorno come estetista, si sente libera, si sfoga. Maddalena danza perché dice di sentirsi come in una giungla dove può muoversi liberamente, può lasciarsi andare, può immaginare di essere altrove.
– Effettivamente, cos’è la danza se non immaginazione, illusione, aspettativa? A cosa serve danzare se non a intrattenere il tempo che passa a con-fondersi con altri corpi, con altri silenzi. In un altrove, appunto!
Mary mi chiede di aspettare, di non andare via e di assistere alle prove generali del saggio finale, che la sua scuola  terrà a Palazzo Lanfranchi.
“Dimmi che te ne pare”.
La musica parte, mi siedo al suo fianco, nella stanza degli specchi.
“Formidable” è il titolo della canzone, che stanno ballando.
Le ragazze indossano delle giacche maschili, forse di due taglie più grandi rispetto alle loro misure; hanno il viso triste, le spalle tirate, gli occhi perduti, come i miei.
Stanno cercando l’amore e sono sudate – perché l’amore è un miscuglio di sudori e non solo di anime – alla fine gettano cuori di stoffa per terra e una bambina di tre anni – si chiama Noemi- con il tutù rosa corre a raccoglierli ed è felice.
“E tu perché balli?” le chiedo.
“Perché sì” mi dice semplicemente.
Ecco, è arrivata dritta al cuore quella emozione che cercavo; la risposta alle mie domande è: perché sì. Ci voleva la danza, ci voleva il mio “giù”, quel ritmo che solo il mio paesaggio interiore sa darmi – forse perché con il passare degli anni sta diventando l’unico luogo sicuro e per questo sempre più vero… Credo!
Saluto le ragazze, ringrazio Mary e salgo in macchina: devo scegliere in quale ristorante andare a cena stasera, in quale luogo fare finta di essere un’estranea, una turista: con chi parlerò stasera? chi mi regalerà un’emozione?

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