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Titolano ancora sulla “resa dei conti” nel Pd i quotidiani di oggi. L’analisi in chiaroscuro del voto di domenica scorsa lascia il posto alle dinamiche interne al partito, che pensa di rinviare la direzione convocata per lunedì per evitare lo scontro in vista dei ballottaggi del 14. La minoranza dem potrebbe manifestare il proprio dissenso già al Senato, dove la riforma costituzionale tornerà prima della pausa estiva per la terza lettura: serve la maggioranza assoluta (161 “sì”) e sono già partiti i conteggi col pallottoliere. La trentina di dissidenti pd aggiunti ai senatori forzisti e ai 36 di Area Popolare – attraversati da una spaccatura interna guidata da Quagliariello, De Girolamo e Lupi ma avversata dal ministro Lorenzin – in questo quadro potrebbero essere l’ago della bilancia (in giornata, a Palazzo Madama la maggioranza di governo si assottiglierà con l’uscita di tre senatori dei Popolari di Mauro). Si profilano giorni di fuochi incrociati tra i democratici. Ieri il presidente Matteo Orfini è stato chiaro: «Non si torna indietro sulle riforme, questo è chiaro. È necessario un chiarimento, una volta per tutte. Basta con i ricatti dei dissidenti. Abbiamo perso perché siamo stati sei mesi a parlare di noi anziché del Paese. Speranza voleva fara una dichiarazione di voto contro il suo gruppo sulla scuola. Così ci si comporta in una federazione di partiti, non in una comunità omogenea». In un lungo articolo, Francesco Bei e Goffredo de Marchis su Repubblica analizzano le ripercussioni del voto in casa Pd e riportano che «anche Renzi è furioso con la sinistra». L’ex capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, lo accusa di «mandare avanti i soliti noti che fanno un po’ di casino ma in realtà capisce che la situazione è molto seria e deve aggiustare la linea». Ma a chi continua a parlare di un probabile ribaltone, lo stesso Orfini ribatte che si tratta di «una follia», piuttosto «se un pezzo del Pd fa mancare i voti in Parlamento si va alle elezioni. Punto». Sempre sul quotidiano diretto da Ezio Mauro, nel suo Punto Stefano Folli nota che il premier «rischia di cadere nella trappola dei due partiti», e cioè «da una parte quello del Sud che dà una mano a De Luca sia pure nel rispetto formale delle procedure, dall’altro quello più intransigente sui temi dell’etica pubblica nel Nord». Gli fa eco anche il politologo Piero Ignazi nel suo interessante focus sul futuro del centro-sinistra, che «non esiste più» da quando «è rimasto in gioco solo il Pd, che ha coronato la sua vocazione maggioritaria vampirizzando ogni possibile alleato e snobbando ogni ipotesi coalizionale. In splendida solitudine, i democratici si preparano alla sfida finale per il premio di maggioranza alle prossime elezioni politiche. L’Italicum, ritagliato su misura del “partito della Nazione” del 41% di un anno fa, rischia di diventare una roulette russa. Perché il sistema elettorale si sta solidificando in tre poli, non in due. La competizione bipolare appartiene ad un passato che non ritorna».
Anche il Corriere della Sera dedica una pagina ai “ribelli” dem. E dà voce ad Alfredo D’Attorre, che di Speranza è corregionale oltre che compagno di corrente: «Il dissenso è molto più ampio di quello che si manifesta in Parlamento. Noi siamo un pallido riflesso dei veri gufi, che sono gli elettori… Renzi raddrizzi la barca». Se lunedì dovesse tenersi la direzione pd, il deputato spera di assistere a un’analisi del voto «meno superficiale e autoconsolatoria». Sulla testata milanese segnaliamo anche una lunga intervista al ministro Orlando e un approfondimento di Fiorenza Sarzanini sul caso migranti.
Originale la chiave di lettura di Alberto Mingardi sulla Stampa: «Alle elezioni regionali si è presentata al seggio la metà degli aventi diritto – scrive nel suo editoriale in prima pagina –. Che è più o meno la stessa percentuale che vota il Presidente degli Stati Uniti. Non sembra che la democrazia americana funzioni tanto peggio della nostra. Per buona parte della Prima Repubblica, l’affluenza alle urne in Italia ha superato il 90%. I nostri nonni e i nostri genitori votavano religiosamente. Ma il fatto che al seggio vadano in tanti non garantisce di per sé scelte particolarmente lungimiranti. Altrimenti avremmo ereditato un Paese un poco più in ordine». Sul Sole24Ore, il politologo Roberto D’Alimonte dà qualche cifra del fenomeno in continua crescita: in 10 anni l’affluenza alle Regionali ha perso 18 punti, il calo è stato dell’11% rispetto al 2010 ma già allora si era registrata una diminuzione della partecipazione al voto pari al 7%. 
Sul Mattino, infine, si completano a vicenda i commenti di Gianfranco Viesti e di Pino Aprile sul rinnovato meridionalismo che i governatori di Campania e Puglia, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, potranno declinare aggiornando l’agenda del governo apparsa finora distante da un tema cruciale per lo sviluppo dell’intero Paese.
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LA NOTIZIA PIÙ CURIOSA | C’è un Salvini meno noto, nella Lega Nord: si chiama Roberto, ha 68 anni e a Pisa ha puntato proprio sul cognome (presentandosi come “il Salvini pisano”) risultando il più votato tra i 6 consiglieri regionali eletti con 5.510 preferenze (Corriere della Sera). 

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