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POTENZA – Una conferenza stampa, organizzata da Fiom Cgil, per accendere nuovamente i riflettori sulla trentennale, assurda, vicenda della Sinoro.
Si è tenuta ieri mattina a Potenza, ed è stata presieduta, tra gli altri, da Angelo Summa ed Emanuele Di Nicola di Cgil, e dal parlamentare in quota Sel Antonio Placido. Alla base dell’incontro il pericolo che l’azienda, che avrebbe dovuto produrre oro, con a capo un gruppo di imprenditori cinesi, possa nuovamente reinsediarsi in maniera legale, perché ‘illegalmente’ lo è già, nello stabilimento lucano di Tito Scalo.
«Una storia ridicola e paradossale», l’hanno definita nel corso della conferenza stampa il segretario di Cgil, Angelo Summa e il deputato Sel, Antonio Placido. Quest’ultimo, dopo l’interrogazione parlamentare presentata lo scorso 22 maggio, vuole vederci chiaro «ed evitare che si riproponga -ha sottolineato – quella che ha tutta l’aria di essere una truffa ai danni dello Stato italiano e dei lavoratori».
La richiesta a firma Placido, inoltrata al ministero dello Sviluppo Economico e a quelli dell’Economia e delle Finanze, dell’Interno, e del Lavoro e Politiche Sociali, consta di due punti fondamentali: «bisogna sequestrare il bene e inserirlo in un piano di reindustrializzazione». Operazioni queste che «non solo sarebbero legittime – ha detto Emanuele Di Nicola, segretario regionale di Fiom Cgil – ma che farebbero bene all’immagine della Basilicata e dello Stato italiano».
L’annosa vicenda, infatti, ha assunto nei trent’anni trascorsi, scenari degni di una “spy story.” Dall’apertura dello stabilimento ad oggi, nemmeno un grammo d’oro è uscito da questa fabbrica.
«L’unica produzione certificata – ha continuato Di Nicola – è rappresentata dai fallimenti». Quaranta in tutto i dipendenti Sinoro, formati con corsi regionali, prima assunti e poi licenziati. Questi non hanno potuto godere della cassa integrazione ma solo della mobilità, scaduta ad agosto 2014, «proprio perché – ha dichiarato Rossana Placido, ex lavoratrice dell’azienda cinese di Tito scalo – la produzione non è mai partita pur essendo la Sinoro in attività dal 1987».
Le mansioni degli assunti in Sinoro, in mancanza di produzione aurea, sono state le più svariate, «dal giardinaggio alle pulizie per fare solo degli esempi. Tutti – ha denunciato ancora il segretario di Fiom- quasi ostaggi di un fantomatico stato cinese su suolo italiano perché, al di là del cancello della fabbrica, quasi nessuno è potuto entrare, forze dell’ordine comprese».
Oggi, quando la strada verso l’ennesimo fallimento sembrava essere tracciata, i “vecchi” proprietari hanno nuovamente fatto capolino e potrebbero averla vinta. Come? Grazie a un procuratore fallimentare che, hanno spiegato ieri Di Nicola e Summa, «non pare voler fare gli interessi di creditori e lavoratori».
Se per ex dipendenti e sindacati infatti, stando solo alle fatture d’acquisto di macchinari ad alta tecnologia presenti sul posto, il valore dell’azienda è stimato in almeno cinque milioni di euro, per il procuratore fallimentare Di Bisceglie il sito di Tito e il suo contenuto sono stimabili in appena 577 mila euro. Un divario di quattro milioni e mezzo a cui, per ora, non esiste giustificazione ma il sospetto che «si voglia permettere alla vecchia cordata già a capo di Sinoro di riacquistare nuovamente, in blocco, tutto».
Ma cos’è che non funziona in questa vicenda? Perché la Regione Basilicata sembra non avere alcun potere? E perché, ancora, lo Stato italiano resta in silenzio? La situazione debitoria di Sinoro, in fondo, è anche nei confronti delle casse statali.
Oltre alle 15 mensilità ed ai Tfr dei dipendenti, e i vari debiti contratti negli anni, c’è infatti una cartella Equitalia non evasa, pari a 20 milioni di euro. «Sarebbe il caso che il curatore fallimentare – ha concluso Summa – si pronunciasse nuovamente in merito a quanto espresso». C’è un ultimo punto oscuro, infine, su cui far luce. Alla dichiarazione di fallimento della Sinoro non è succeduta alcuna assegnazione dello stabilimento eppure al suo interno “opererebbe indisturbata”, con due dipendenti, la Sinorop, società per azioni formata dagli stessi responsabili della Sinoro.
Sarebbe proprio questa società, abusivamente insediata nello stabilimento di Tito scalo, la vera concorrente per l’acquisto degli spazi e delle attrezzature. Insomma, il rischio è quello di aprire una nuova scatola cinese e permettere, ancora una volta, che certi “imprenditori” si prendano gioco dei lucani e della Basilicata.
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