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TOCCATA e fuga in elicottero prima di andare in Sardegna, nel vortice di incontri pre-voto che lo stanno vedendo via via modificare (al ribasso) i pronostici sulle Regioni conquistate: dal cappotto poi 6-1 delle settimane scorse si è passato al 4-3 dell’altro ieri e al 5-2 di ieri. Se tutto va male, Matteo Renzi potrebbe ammettere un 3-4 dando in questo modo protagonismo mediatico alla Basilicata, altrimenti prepariamoci a una visita brevissima. Eppure “strategica” più per l’inner circle renziano che per la regione ospite, come vedremo. A quattro giorni dal voto, puntando su una città-simbolo della (presunta) renaissance economica italiana (e lucana) il presidente del Consiglio si smarca sia dal rischio passerella elettorale, sia dal dualismo Potenza-Matera, uno di quei casi in cui la Basilicata bifronte si mostra in tutto il suo splendore: la città del dissesto – in attesa di vedere concretizzato l’aiuto romano, peraltro – e la celebratissima Capitale della cultura 2019 che fa incetta di citazioni sulla stampa planetaria e benedice un weekend sì e uno no con l’overbooking.
Una nuova questione meridionale mentre le università si svuotano
Ma Renzi verrà anche per smentire che il Sud è fuori dall’agenda politica del governo o brandirà solo il Modello Melfi? Accanto all’oleografia del produttivismo e delle eccellenze da esposizione universale, fuori dai supermercati lucani in cui si registra un boom di consumi che fa da traino all’Italia – l’ad di Conad, Francesco Pugliese, ha ripetuto in più di un’occasione i dati sorprendenti di inizio 2015 – c’è una “Basilicata di mezzo” o meglio di periferia che il premier rischia di bypassare nella sua visita di domani: è proprio di ieri la diffusione di uno studio dell’Anagrafe degli studenti del Miur in base al quale in 10 anni la Basilicata ha perso la metà degli iscritti all’università: dopo Abruzzo, Molise e Sicilia, nella regione è fuga dagli atenei con una cifra pari al -49,4%, ovvero quasi il doppio della media nazionale, che si ferma a -27,5% (il riferimento è agli immatricolati ai corsi triennali nell’anno accademico 2014/2015 in confronto al 2004/2005); se poi si confronta il dato attuale con quello di cinque anni fa, la Basilicata riesce a fare peggio di tutte (-37,6%) seguita da Molise (-31,7%) e Sicilia (-25,3%). Alla faccia della Lucania felix.
Se una regione non trattiene i propri figli per formarli siamo davanti a un pericoloso campanello d’allarme e un governo deve immaginare tutti gli strumenti possibili per invertire la rotta. Senza bisogno di arrivare a invocare il ritorno della Cassa del Mezzogiorno, basti ricordare che nella squadra renziana non esiste una delega ad hoc e importanti osservatori esteri (da ultimo l’Economist) hanno denunciato una nuova questione meridionale: analizzando i dati Svimez, il settimanale inglese ha annotato che le 8 regioni del Sud hanno visto la loro economia contrarsi del 13%, quasi il doppio del 7% del centro-nord. «Dei 943.000 nuovi disoccupati il 70% sono meridionali mentre il tasso di partecipazione al lavoro è il 40% rispetto al 64% del nord – ha sintetizzato Romano Prodi in un intervento sui quotidiani del gruppo Caltagirone –. Il tasso di occupazione femminile è oggi del 33%. Inferiore non solo al 50% del centro-nord ma anche al 43% della Grecia. Il livello di povertà assoluta è passato dal 5,8% al 12,6%. Il tasso di natalità è inferiore di quello pur bassissimo del nord, mentre, in questa prima parte di questo secolo, più di 700.000 persone hanno di nuovo risalito la penisola come emigranti e più di un quarto di questi è composto di laureati, privando quindi il Mezzogiorno di una possibile nuova classe dirigente»: quanto basta per titolate il servizio “Il racconto di due Paesi”. Racconto in cui, come si legge, accanto alla triplice zavorra infrastrutture / Pubblica Amministrazione / giustizia non manca il capitolo della fuga. E così siamo tornati a quei dati allarmanti sulle università.
Se nello stabilimento modello si rafforza l’asse Matteo-Sergio
Di una rinnovata emigrazione giovanile e non solo degli indicatori in crescita grazie al Jobs act dovrebbe parlare a Melfi il leader Pd. Che conosce come pochi la comunicazione e la tempistica politiche – è il motivo per cui molti vedono in lui un’evoluzione 2.0 del germe berlusconiano – e soprattutto riesce a piegare persino il mutato operaismo post-ideologico ai propri interessi: si ricordi il caso dell’invito declinato al Forum internazionale di Cernobbio a favore dell’inaugurazione delle Rubinetterie Bresciane. Inutile dire che fu un tripudio e il segnale lanciato arrivò a destinazione: voi parlate che io sto con l’Italia che lavora, e infatti per quel Renzi molte più telecamere e taccuini che se si fosse confuso nella scaletta di interventi a Villa d’Este. Allora a Brescia c’era anche il numero uno di Confindustria, Squinzi. Un dato importante perché la visita a Melfi – argomentava ieri Repubblica – verrà usata dal premier (anche) come prova muscolare nei rapporti di forza con gli industriali. A quasi 9 mesi da quello strappo, ecco che Renzi ne prepara un altro proprio con Squinzi, in risposta all’invito di Confindustria – da cui Marchionne, come noto, se n’è andato – di partecipare all’assemblea annuale in programma all’Expo di Milano. La Basilicata, anzi Melfi, si conferma, dunque, soltanto una leva. «Da una parte il rito stanco dell’assemblea confindustriale con la solita dose di lamentele sul peso del fisco e l’inefficienza della burocrazia – ha scritto Roberto Mania – dall’altra un modello leggero, a tratti autoritario, di relazioni industriali che si sta imponendo con i fatti. Renzi, andando a Melfi, vuole ribadire che sta con Marchionne. E viceversa».
Non solo: Fca, il che interessa anche Melfi e solo per un caso la Basilicata con il suo stabilimento di San Nicola, sta lavorando nella direzione di un sindacato unico dell’automobile che negli States è già realtà, mentre proprio a Milano i sindacati discuteranno sul futuro della contrattazione aziendale, con l’asse Cgil-Fiom su posizioni di chiusura. E qui torniamo alla “tendenza Melfi”, dove, «come in tutto il mondo Fca, le regole invece sono già cambiate nonostante il niet della Fiom. Melfi è così l’emblema del nuovo corso, pure delle relazioni sindacali, perché senza l’accordo con “i sindacati del sì” le produzioni non sarebbero tornate in Italia».
In tutto ciò, nell’alchimia politico-economica di una campagna elettorale nazionale permanente, ci sarebbe anche una regione – con la R minuscola – che attende di sentire le parole dell’ex sindaco di Firenze magari sul suo futuro. Un futuro che non significhi solo petrolio e automotive. Sì, perché se Marchionne (e Renzi, ma anche Marcello Pittella) rivendica l’isola felice di Melfi, unico stabilimento del mondo a ciclo continuo coi suoi 20 turni di lavoro, 1.500 nuovi posti di lavoro e altrettanti pezzi sfornati al giorno tra 500X e Jeep Renegade da 8mila dipendenti più i 4mila dell’indotto (meno del 10% degli addetti è residente a Melfi, gli altri vengono da Basilicata, Puglia, Campania e Calabria) e una media di 25 anni, c’è una regione in attesa di risposte anche fuori di lì. Chissà se il premier avrà una frase anche per l’altra Basilicata.
e.furia@luedi.it
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